Fotografia

Professione: photo-consultant - Irene Alison

Con la crisi dell’editoria periodica, da oltre un decennio la produzione di libri fotografici, anche di self-publishing, è diventata una prassi consolidata per far arrivare al pubblico il lavoro autoriale. La curatela di questo tipo di progetto – dalla definizione del book-project all’art direction, dalla consulenza editoriale fino alla comunicazione – è uno dei numerosi expertise di Irene Alison, direttrice creativa dello studio di consulenza e progettazione fotografica DER*LAB, che ci racconta tutto in questa intervista.

di Simone Azzoni | su PRINTlovers 93

Quella di Photo-consultant è una figura professionale relativamente recente, esito necessario di percorsi nella fotografia dalle tracce sempre più labili e incerte. La linearità che fino a dieci anni fa orientava i fotografi all’editoria si è persa per strada e l’autorialità è traguardo assai difficile da raggiungere. Il Photo-consultant accompagna l’autore nello sviluppo del progetto a diversi stadi, dall’idea al progetto già realizzato ma non ancora editato o comunicabile al pubblico. Si sviluppa così la ricerca attorno al self publishing e al contesto creativo idoneo al progetto stesso. Un percorso obbligato per far conoscere il lavoro di un fotografo al pubblico. Creare ad esempio un libro oggi diventa quindi un’affermazione creativa, un’ontologia, un inizio. Per realizzare la transizione da progetto ad oggetto occorrono delle skills che non tutti i fotografi hanno, da qui la necessità di una  figura come quella di Irene Alison per costruire la narrativa, unire i tasselli di un racconto per immagini, distinguendo quando queste sono per l’editing di un libro, per una gallery web, per una mostra, o per un magazine.

In cosa consiste il tuo lavoro di photo-consultant? Puoi raccontarci l’equilibrio tra direzione creativa, curatela e attenzione alle strategie comunicative del prodotto da realizzare?

Dopo una lunga esperienza come giornalista, e dopo essermi accostata alla fotografia dal punto di vista critico e curatoriale, nel 2014 ho creato studio di produzione e progettazione fotografica DER*LAB (www.dollseyereflex.org), un piccolo team interdisciplinare nato dal desiderio di portare avanti un progetto in cui mi riconoscessi completamente e di intercettare i nuovi bisogni di un mercato, quello della fotografia, che era in quel momento (ed è tuttora), in rapido cambiamento. Alcuni storici interlocutori – come le agenzie, per esempio – si stavano ridimensionando o stavano sparendo. Allo stesso tempo, stavano emergendo nuove esigenze e nuovi soggetti. Ho sentito forte, da parte dei fotografi, la necessità di figure che li aiutassero a definire un contesto attorno alle loro immagini, a strutturare l’architettura dei loro progetti, ma anche a definire gli approdi dei progetti stessi. Mi è apparsa chiara anche la possibilità di supportare le aziende nella definizione delle proprie identità visive. Nel tempo, poi, la formula di DER*LAB si è ridefinita continuamente, anche in base alle nuove domande provenienti dal mondo della comunicazione visiva. Per esempio negli ultimi anni abbiamo lavorato molto nel settore della progettazione e curatela della comunicazione social, un tipo di servizio che era inimmaginabile quando siamo nate. All’interno di DER*LAB, sempre in dialogo con la mia socia e art director Alessandra Pasquarelli, mi occupo dello sviluppo di progetti diversi: seguo con percorsi di mentoring quei fotografi che vogliono essere accompagnati nella realizzazione di un’idea, curo e definisco i progetti editoriali di dummy e photobook, creo ed elaboro i progetti di comunicazione visiva per le aziende, progetto e lancio una piccola linea di quaderni fotografici pubblicata da noi.

Solo fino a pochi anni fa i ruoli nell’editoria erano ben chiari distinti, mentre oggi i fotografi sono sempre più anche editor e agenti di se stessi. Come si sta trasformando il ruolo del photo-editor? È una figura ancora indispensabile? Quali altre figure professionali sono necessarie accanto ai produttori di immagini?

Nel momento in cui è collassato il sistema editoriale tradizionale, che era il principale riferimento economico e approdo per i fotografi documentari, il ruolo del photo editor ha cambiato il proprio orizzonte di riferimento. Se prima la sua funzione era strettamente legata alla dimensione dell’editoria periodica con la necessità di realizzare/impaginare immagini funzionali alla narrativa e all’agenda di un magazine, successivamente ha cambiato e ampliato i contesti e la natura del proprio lavoro. Per quanto mi riguarda, uno dei principali scenari di intervento è quello del photobook, sia in self-publishing sia pubblicato da terzi. Ma non solo: la mia consulenza fotografica può svilupparsi attraverso la curatela dell’account Instagram e di mostre e installazioni, la definizione di siti e piattaforme dedicate alla diffusione/fruizione di progetti fotografici e molto altro. Certo, ci sono anche fotografi molto autonomi in questo processo, la cui identità autoriale si esprime soprattutto in fase di editing: è il caso di artiste come Ryncho Kawauchi o Laia Abril. Non si può affermare, quindi, che l’occhio esterno dell’editor sia sempre necessario per il fotografo. Ciò che è sempre necessario, invece, è la capacità di guardare il proprio lavoro dalla giusta distanza in fase di selezione e di costruzione della sequenza, avendo anche la lucidità indispensabile per rinunciare a qualcosa o per individuare dei nuovi percorsi narrativi che magari non erano stati immaginati in fase di scatto. Si tratta di un processo difficile, ecco perché molti fotografi sentono il bisogno di rivolgersi a qualcuno che lo intraprenda per loro e con loro. Quello con un editor, un consulente o un curatore può essere un dialogo molto arricchente, che permette di far sorgere nuovi sensi all’interno di un progetto o semplicemente di definire meglio la sua identità.

Come sta cambiando il mercato dell’editoria stampata? Rispetto al passato sembra che si pubblichi molto meno e con meno risorse economiche: quali canali possono trovare oggi i fotografi per proporsi il pubblico?

A partire dal 2009 l’editoria periodica tradizionale è entrata in una crisi irreversibile: la recessione economica e la diffusione di internet hanno cambiato definitivamente il modo in cui fruiamo le notizie, rendendo sempre più periferico il ruolo della carta stampata. In assenza di altri approdi per il proprio lavoro – i magazine sono sempre meno, con risorse sempre più limitate – i fotografi si sono ritrovati orfani della loro tradizionale committenza e impossibilitati a trovare canali per portare il proprio lavoro al pubblico. Fare un libro è diventato allora uno dei pochi modi in cui un fotografo può affermare il proprio punto di vista inserendolo in una cornice di senso. Un ruolo differente rispetto a quello che ha avuto in passato il libro fotografico: non più momento di consacrazione di un lungo percorso professionale ma, sempre più spesso, un biglietto da visita attraverso il quale il fotografo esprime la propria identità autoriale. Da qui lo sviluppo esponenziale del self-publishing, atto creativo e investimento economico che il fotografo fa su di sé per far conoscere la propria voce.  Realizzare un photobook, però, è tutt’altro che facile, perché richiede un know-how complesso e stratificato che abbraccia differenti settori. Non basta saper fare delle belle foto per fare un buon libro: è necessaria quella capacità curatoriale e creativa per definire un book project solido che rispecchi il progetto e ne amplifichi le potenzialità di lettura. Quella competenza editoriale che permette di utilizzare consapevolmente tecniche e materiali (carte, rilegature ecc.). Quelle attitudini imprenditoriali che permettono di definire una strategia di produzione e distribuzione efficace. Infine, quelle skill in termini di comunicazione e marketing che fanno sì che il libro arrivi, in effetti, in mano ai lettori. Questi aspetti sono quelli in cui si articola la mia consulenza per il self-publishing: con DER*LAB accompagniamo infatti il fotografo dalla definizione del book-project all’art direction, dalla consulenza editoriale fino alla comunicazione.

Qual è la formula dell’efficacia comunicativa di un editoriale fotografico? Tendi a privilegiare la personalità/impronta dell’autore o l’immagine in sé?

Tendo a privilegiare le ragioni del progetto, la sua logica interna, la narrativa che intendo mettere a fuoco. Come photo-consultant, io non lavoro mai per/su un autore, ma per/su il suo progetto. Dunque, soprattutto se questo progetto deve evolvere nella forma di un libro, per me è necessario restare concentrata su ciò che è funzionale al racconto, anche a discapito della singola immagine “bella”, che però magari non si integra in maniera utile nel percorso: se poi questo percorso è forte, allora farà anche emergere la personalità dell’autore.

Tu hai scritto un libro dal titolo “iRevolution”, in cui parli di come il mezzo utilizzato condizioni i contenuti, in un inarrestabile processo di democratizzazione iniziato forse con Kodak a fine Ottocento. Ma cosa distingue oggi la produzione amatoriale da quella professionale?

iRevolution è stato scritto nella fase in cui la fotografia mobile era un affare per pochi pionieri. Instagram già esisteva, si stava diffondendo rapidamente ma veniva ancora visto con molto sospetto dalla fotografia professionale, così come era visto con sospetto il telefono cellulare come strumento di ripresa. I fotografi che ho intervistato erano i primi ad aver realizzato ampi corpi di lavoro con questo strumento. Oggi un approccio di questo tipo non avrebbe più senso, perché sono cambiati i termini del discorso: la questione non ruota più intorno all’uso di quello specifico mezzo, ma ruota intorno al radicale cambiamento della funzione e dell’uso della fotografia, da mestiere per professionisti a linguaggio universale, rendendo oramai superflua qualsiasi distinzione tra “professionale” e “amatoriale”. 

Fai parte della giuria di numerosi premi e lavori anche come docente. Cosa ti colpisce maggiormente della grande quantità di immagini che vedi?

Sicuramente la capacità di integrare organicamente forma e contenuto in un racconto dall’architettura solida, in cui ogni scelta abbia una forte coerenza interna e allo stesso tempo ogni immagine sia in grado di evocare significati, inquietudini ed emozioni al di là della sua lettura letterale.

In quale direzione pensi che andrà la fotografia contemporanea?

In quella di una sempre maggiore consapevolezza politica del proprio ruolo: penso ad esempio al peso che ha avuto negli ultimi anni il lavoro di tante fotografe nella messa in discussione degli stereotipi sulla femminilità e nell’emersione delle istanze della fourth wave femminista e del femminismo intersezionale. Da questo punto di vista, Instagram, dove queste fotografe sono cresciute e hanno cominciato a diffondere i propri progetti, ha avuto un valore chiave: credo che l’utilizzo consapevole della piattaforma per portare avanti un discorso visivo e ingaggiare l’audience in una riflessione condivisa sui temi del contemporaneo sia, in uno scenario complesso e segnato dalla carenza di approdi e di risorse per i fotografi, sia uno dei pochi canali e delle poche possibilità aperte a chiunque abbia qualcosa da dire.

Irene Alison
Giornalista professionista e photo-consultant, Irene Alisonè direttrice creativa dello studio di consulenza e progettazione fotografica DER*LAB. Docente all’Istituto Europeo del Design (IED) di Roma, ha collaborato come tutor e consulente con alcune delle maggiori scuole di fotografia italiane. Come redattrice ha lavorato per il Manifesto e per D, La Repubblica delle Donne. Da freelance ha realizzato reportage apparsi su Geo France, The Independent,l’Espresso, D, XL, Marie Claire e Riders. I suoi articoli di critica fotografica sono stati pubblicati da testate come La Lettura de Il Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore e Pagina99. Ha pubblicato due saggi di approfondimento fotografico, My generation (Postcart, 2012) e iRevolution (Postcart, 2014). Nel 2022 è uscito negli Stati Uniti Holding Time, libro realizzato con la fotografa Catherine Panebianco, di cui è autrice dei testi. Nel 2022 è prevista l’uscita per Postcart del suo primo libro fotografico (La Madre Attesa, a cura di Laia Abril) e del suo nuovo saggio Muse col Muso, l’immaginario animale nella fotografia contemporanea. Ama gli animali, e ne parla nel suo blog Zazie Dogzine.


09/02/2023


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