Fotografia

Nei frammenti istantanei di Maurizio Galimberti

Volti, prodotti, architetture ricomposti come tessere di un mosaico. Per esaltarne l’essenza, rintracciarne nuove verità. Così Maurizio Galimberti crea le sue famose immagini. Inseguendo, ci spiega, il ritmo di una melodia interiore.

Di Michela Pibiri | Su PRINT 79 

Nato a Como nel 1956, Maurizio Galimberti nei primi anni ’80 si è focalizzato in maniera radicale e definitiva sulla fotografia a sviluppo istantaneo, prima con Polaroid e poi con Fujifilm Instax. Influenzato dalle Avanguardie Storiche e dal Bauhaus, ha perfezionato nel tempo la sua personale tecnica del mosaico fotografico. Oltre ad aver ritratto numerose celebrità ed essere stato fotografo ufficiale del Festival del Cinema di Venezia, ha un lungo curriculum di esposizioni e pubblicazioni d’autore, l’ultima delle quali, edita da Skira, è dedicata al Cenacolo Vinciano. È amato anche dalla comunicazione di marca, che in lui trova un autore in grado di testimoniare l’italianità nel mondo: da Illycaffé a FIAT, da Acqua di Parma a Kerakoll Design. Passando per brand internazionali sinonimo di haute joiaillerie, come Cartier e Jaeger-LeCoultre, in cui il racconto del dettaglio è parte del DNA della marca.

Oggi Maurizio Galimberti vive a Milano, in una casa-studio ricca di riferimenti culturali che parlano di una ricerca personale profonda e maturata nel tempo. Ci accoglie in una stanza che, dice, “il Cubismo dividerebbe in nove tessere, mentre io la dividerei in cinquanta”.

Lei è conosciuto come instant artist. Come nasce la decisione di dedicarsi esclusivamente alla fotografia istantanea?
È cominciato tutto all’età di quattordici anni nei circoli fotografici di Meda e Seregno, ma andando avanti mi sono accorto che il buio non mi permetteva di stare in camera oscura: mi ricordava i primi cinque anni della mia vita in un orfanotrofio. Quindi ho deciso di usare la Polaroid, che non solo era l’unica tecnologia che permetteva di avere la stampa immediata, ma era anche perfetta per “fare il verso” alla storia dell’arte, perché facilmente manipolabile in fase di sviluppo. Erano anni in cui andava molto di moda l’Impressionismo: manipolare le foto restituiva effetti molto vicini alle pennellate di luce, e nella contaminazione ho trovato un potente mezzo espressivo. Mi sono poi appassionato al Bauhaus e alle Avanguardie del Novecento, in particolare al Dada e al Futurismo, e ho cominciato a realizzare immagini che rivisitavano in chiave contemporanea quel tipo di arte.

La sua identità artistica si esprime oggi soprattutto nei mosaici. Scomporre e ricomporre la visione è un gesto molto forte: cosa implica questa poetica?
Quello che faccio è dividere lo spazio, ma in maniera differente dal Cubismo, che lo sezionava con precisione per mostrarlo simultaneamente da diverse angolature. Io lo dilato come Glenn Gould dilatò il tempo delle “Variazioni Goldberg” di Bach: la prima volta le suonò in trentacinque minuti e dopo ventisei anni suonò lo stesso spartito in cinquantuno minuti entrando completamente dentro la musica per raccontare la sua interiorità. Con la fotografia io cerco di fare la stessa cosa: dilato gli spazi e i volti, creando una narrazione che sta a metà tra la musica e le linee dinamiche del Futurismo di Boccioni, le accelerazioni di Balla, fino ad arrivare al “Nudo che scende le scale” di Duchamp. Per applicare questa tecnica al ritratto, sono partito dai mosaici di Chuck Close, di David Hockney e di Daniel Spoerri, applicando sempre la mia visione “futurista- duchampiana”, e da lì ho evoluto la mia tecnica.

Come procede nella realizzazione dei mosaici?
La composizione è prima di tutto mentale. Le tessere che scatto sono quelle che poi compongono effettivamente l’opera: non ne scatto mai di più. Mio padre, impresario edile, mi portava sui cantieri per fare il conto di quanti ponteggi sarebbero serviti per le facciate, ed è così che ho imparato a scomporre lo spazio con precisione: si può dire che io veda il mondo a finestre. Per scattare parto dall'alto verso il basso, da sinistra a destra. Nel caso dei ritratti, i soggetti restano immobili e in silenzio mentre io mi muovo intorno a loro: con la mia tecnica fotografo le persone a pochi centimetri di distanza, devo praticamente appoggiarmi, e inizialmente restano spiazzate, perché non riescono a darsi un atteggiamento, ma dopo un attimo tornano naturali, e lì emerge la personalità. Quando ho finito metto giù le tessere nell’ordine in cui le ho scattate e le unisco con lo scotch: fine. È un lavoro di pancia e molto artigianale.

Tutta l'industria della comunicazione è in fondo un’immensa sfilata di dettagli scomposti, di suggestioni che avvicinano o allontanano noi consumatori, ci fanno vedere angolazioni inconsuete... Quali sono gli elementi del suo lavoro più amati dai brand?
Le immagini che creo io non vogliono vendere il prodotto, vogliono far sognare. E dunque le aziende con cui lavoro mi lasciano libertà assoluta, senza la quale non potrei fare nulla. A settembre esce la nuova campagna mondiale di Acqua di Parma: al brand interessava che il mio mosaico raffigurasse flacone della loro essenza, con un briefing basato sulla visibilità di alcuni dettagli del prodotto. Insieme abbiamo creato un’ambientazione di luce naturale molto delicata, ma per il resto mi hanno lasciato suonare la mia musica senza interferenze. Un altro lavoro importante è il libro realizzato per Jaeger-LeCoultre insieme all’art director Federico Mininni, in cui ho fotografato a mosaico tutti i dettagli di haute horlogerie, e rivederli nell’insieme è un’esperienza magica. Per FIAT ho realizzato un calendario e un volume “Viaggio in Italia” dedicato al bello italiano: in me i brand trovano non solo l’autorialità, ma un ambassador di italianità nel mondo, ruolo che amo molto.

Il suo lavoro prevede anche le applicazioni decorative delle sue fotografie, come nel caso della collaborazione con Illycaffé. C’entra l’approccio interdisciplinare del Bauhaus, che prevedeva la nascita di artigiani-artisti in grado di sfruttare la tecnologia e di industrializzare la creatività?
Dal Bauhaus ho tratto soprattutto lo spirito del laboratorio in cui tutto è sempre messo in discussione per amore della ricerca e della sperimentazione. Aggiungiamo poi il fatto che da ragazzo, tramite mio padre, ebbi modo di conoscere Cesare Cassina, grande appassionato di fotografia, che mi mostrò la sua collezione di fotografie di Cartier-Bresson, André Kertész, Marc Riboud, ma soprattutto mi fece vedere come fosse riuscito a portare la sua azienda nel design, riprendendo i disegni di grandissimi come Le Corbusier, Macintosh, Rietveld e Frank Lloyd Wright per creare la collezione dei Maestri. Si trattava di prodotti industriali che guardavano alla storia del design d’autore per fare impresa, e questo aspetto mi affascinò molto. Sicuramente la collaborazione con Illycaffé per la creazione di una serie di tazzine firmate per la Illy Art Collection, di cui 5 realizzate con vecchie Polaroid e una che ha come oggetto Trieste, realizzata con Fujifilm, è una testimonianza di questo mio approccio da artista- artigiano: io mi considero un fabbricatore d’immagini.

Questa sua scomposizione in molte facce è molto ricercata anche dalle celebrità, da Robert De Niro a Lady Gaga, da George Clooney a Johnny Depp, ma anche dal “padre di Internet” Vinton Cerf… Cosa amano queste personalità “superfotografate” del suo lavoro?
Credo che amino il mio approccio perché si trovano messi a nudo. Racconto un aneddoto: nel 2010 mi trovai a New York per conto di Polaroid, sponsor del Tribeca Film Festival. Dovevo fotografare Robert De Niro, che non voleva saperne. Trovava stupida l’idea che qualcuno gli piazzasse una macchina fotografica in faccia e lo raccontasse a pezzettini. Lo convinse solo il contratto con Polaroid. Quando finii di scattare e vide le tessere composte sul pavimento si commosse perché in quei dettagli, disse, vedeva sua madre, suo padre, la sua preoccupazione per il figlio autistico. In questa storia c’è l’essenza dei miei ritratti: io cerco sempre un silenzio interiore. Cerco di tradurre la personalità, e non un’espressione.

In occasione del cinquecentenario della morte di Leonardo da Vinci lei ha presentato un mosaico del Cenacolo, che è diventato anche un libro pubblicato da Skira. Come si è approcciato a quest’opera immensa?
L’idea di fotografare il Cenacolo con la tecnica mosaico è nata da un bisogno di ricerca culturale tra me e il fiscalista Paolo Ludovici, grande personaggio della cultura milanese. Dopo aver acquistato i diritti dall’Archivio Scala, abbiamo stampato la riproduzione nelle misure di 8,90 per 1,40 metri; ho poi scomposto la stampa in sei pannelli, dilatando le immagini e raddoppiando qualche apostolo – ne ho messo in tutto 19 – e poi ho fotografato tutto nuovamente pezzo per pezzo secondo la mia progettualità. Chiaramente non ho fotografato direttamente il Cenacolo perché con la mia tecnica, in cui è necessario appoggiarsi al soggetto, sarebbe stato impossibile. A novembre inaugurerò una grande mostra alle Gallerie d’Italia con Intesa Sanpaolo, dove la parte del leone la farà il mosaico realizzato con Fujifilm Instax Square SQ20 con dominante del tono bianco e blu.

Dopo essere stato per molti anni testimonial Polaroid, sembra essersi convertito a questa nuova tecnologia Fujifilm…
Quando la Polaroid ha chiuso, prima di rinascere nel 2009, ho passato anni terribili. Nel frattempo Fujifilm ha investito molto in ricerca e ha creato la Instax Square SQ20, una fotocamera istantanea ibrida: è, come la Polaroid, una macchina a sviluppo istantaneo, ma dotata di tecnologia di elaborazione digitale delle immagini. Permette di zoomare, di regolare il diaframma, e soprattutto permette variazioni cromatiche grazie ai filtri colorati. Con Polaroid il mio grandangolo era fatto di passi avanti e indietro, e se volevo un viraggio particolare dovevo usare un filtro fisico, oppure sperare nelle variazioni di temperatura. Devo constatare che la tecnologia ibrida mi ha permesso di essere ancora più creativo perché posso partire da un’immagine singola e ingrandirla in macchina per poi stamparla a pezzi: questo mi ha aperto un orizzonte sconfinato, come spesso succede quando si ha tra le mani qualcosa che sorprende, disorienta, spiazza. Posso dire che la mia creatività sia rinata.

La fotografia istantanea è uno strumento solo per artisti, un vezzo per nostalgici o vanta un effettivo seguito?
Scherza? È in atto una rivoluzione culturale da parte dei giovani che utilizzano queste tecnologie, soprattutto la Fuji Instax Square e la Mini Instax, che fa le foto grandi come lo schermo dello smartphone e parla il linguaggio di Instagram. Nel mondo dell’istantanea Polaroid continua a fare la parte del leone insieme a Fujifilm, ma ci sono anche Leica, Canon, Holga e Lomo. La fotografia non è mai stata viva come adesso, visto che praticamente tutti scattano. Potremmo certamente aprire un discorso filosofico su cosa sia fotografia e cosa no, ma il punto in questo momento è che migliaia di persone sono tornate a usare la fotografia istantanea, dunque alla matericità, alla magia, all’odore e allo spessore di quel pezzetto di carta che si tiene in mano. Una cosa che la fotografia digitale non ha: la capacità di donare quella speciale emozione.




 


10/07/2020


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