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Alcoholic drink senza pregiudizi

Abbiamo chiesto a Spiros Malandrakis, uno dei più importanti esperti del mercato degli alcoholic drink, Industry Manager di Euromonitor International, di fare il punto sui possibili sviluppi del segmento, ma anche sulle nuove modalità di consumo e di comunicazione. Il design delle etichette, ci ha detto Malandrakis, dovrà presto aprirsi alle nuove tematiche della contemporaneità, essere più attento a sfruttare le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, avviare una riflessione profonda sull’estetica del consumo e dei prodotti, anche in funzione della loro ‘instagramability’.

Di Valentina Carnevali | Su PRINT 77



Secondo la ricerca di Euromonitor ci sono stati molti cambiamenti nella consumazione di alcolici nel mondo. Quali sono i trend che condizionano di più questo segmento?
Vorrei sottolineare che quasi nessuna tendenza ha lo stesso valore a livello globale, perché molti fattori influenzano questo segmento e tanti hanno rilevanza diversa secondo la cultura e le abitudini nei diversi paesi. Ci sono tuttavia due trend che considero rilevanti in tutto il mondo. Il primo è quello del ‘mindful drinking’ (bere consapevolmente), il secondo ha a che fare con la cosiddetta reputazione che i giovani cercano sul web. La tendenza al bere consapevole è osservabile in particolare nell’aumento del consumo delle bevande analcoliche e naturali come il Seedlip. Si tratta di bevande nate con l’intento di soddisfare una fascia adulta con un prodotto d’alta gamma che non si posiziona più attraverso un linguaggio sottrattivo, cioè utilizzando termini in negativo, come ‘senza alcool’ o ‘con meno calorie’, bensì con lo stesso tone of voice usato per la descrizione di bevande alcoliche, vale a dire con un’attenzione rivolta all’aspetto botanico, alla distillazione e all’origine del prodotto. Perfino le generazioni più giovani, ventenni e trentenni, sono sempre più diffidenti nei confronti del consumo di alcool. E anche se nell’immaginario comune si ritiene che siano invece proprio loro a bere di più, in realtà per i produttori di bevande analcoliche il target ideale della comunicazione sono i ventenni e i trentenni e non, come si potrebbe supporre, le donne incinte e le minoranze religiose. La ragione che spiega questo fenomeno sta nell’attenzione che i giovani mettono nella cura dei contenuti che postano sui loro profili social: sono sempre molto attenti a non compromettere la reputazione con la foto di una serata ‘sfrenata’. Questo secondo trend è piuttosto sorprendente: soprattutto se si pensa che ciò che porta i giovani di oggi a consumare meno alcool non è l’attenzione alla propria salute, quanto una sorta di orgoglio. In più, lo sviluppo delle social media personas avvicina le fasce di età giovani a quanto è più d’impatto su Instagram. In gergo la chiamiamo “instagramability”, il cui esempio più palese è quello di Aperol. Un drink informale, disinvolto e a basso contenuto calorico che di recente ha avuto un picco in termini di consumo. Soprattutto, è arancione! Di grande effetto all’interno di un’immagine che viene postata su quel social network.

L’immagine quindi gioca un ruolo importante, nel consumo di drink. Oltre a quello connesso ai social media, ci sono aspetti legati al design che secondo te costituiscono un trend?
Si. L’aspetto legato all’uso dei social è un angolo di osservazione sorprendente ma certamente reale. L’estetica e il design diventano in questo senso sempre più importanti, ma questo contesto non è l’unico che osserviamo. In generale c’è un nuovo fenomeno che emerge da qualche tempo: la valorizzazione dell’artigianalità. Dal punto di vista creativo questo nuovo approccio apre svariate opzioni, in particolare legate allo sviluppo di birrifici e distillerie locali, più piccole e disposte a sperimentare, con produzioni limitate rispetto a brand importanti ma che fanno leva su credenziali e qualità superiori. Il design, non più costretto da dettagli tecnici sconosciuti al consumatore medio, ora si concentra su elementi come l’artigianato e la qualità del prodotto. Anziché descrivere colline che il consumatore non può vedere, si preferisce raccontare una storia, una suggestione, anche attraverso mezzi tecnologici di cui disponiamo, come la realtà aumentata (AR). Esemplare in questo senso è il vino americano ‘19Crimes’, le cui etichette prendono vita e raccontano storie di criminali puniti nel XVIII secolo. Perché prodotti di lusso sopravvivano oggi devono accogliere generazioni più giovani fra i loro consumatori. Il produttore deve andare oltre la nobilitazione dell’etichetta e raccontare la storia del brand e dei suoi valori. Ma le storie dovranno confrontarsi con le culture giovanili e i loro interessi, come ad esempio l’ambiente o i diritti LGBTQ. Se tutto questo è comunicato in maniera informale, il messaggio diventa più diretto ed emozionale e cattura l’attenzione del nuovo consumatore.

Spesso sei intervenuto sul tema della cannabis e di come il suo consumo legalizzato in molti Paesi possa influenzare il segmento di mercato dei drink alcolici. Puoi spiegarci meglio la tua visione?
Credo che la cannabis sia il maggior competitor dell’alcool oggi e lo diventerà sempre di più in futuro. A mio parere la cannabis potrebbe prendere il posto dell’industria dell’alcool come la conosciamo oggi. La percezione dei giovani sugli effetti dannosi dell’alcool è cambiata, come ho detto prima. E si sta spostando: gli effetti dell’alcool sono ritenuti peggiori di quelli della cannabis. Credo che in prospettiva l’industria dell’alcool e quella della cannabis siano destinate a unirsi. Questo processo di fatto è stato già in parte interpretato, in particolare negli Stati Uniti, dove compagnie produttrici di alcolici stanno investendo nel mercato della cannabis. Un esempio è Constellation Brands, colosso della produzione di birra e vino, che ha investito in Canopy Growth, uno dei maggiori produttori canadesi di cannabis. E lo ha fatto con l’obiettivo di proporre un consumo responsabile e olistico, offrendo l’opzione di drink alcolico o infuso con THC, la sostanza psicoattiva della cannabis.

E per l'Italia?
L'Italia ha una lunga tradizione nella produzione di vini ed è un Paese conservativo: i cambiamenti sono accolti con più lentezza rispetto a quello che avviene in altri Paesi. Faccio un esempio relativo al packaging: il vino in lattina, già molto diffuso negli Stati Uniti, è ancora ben lontano dalle tavole italiane. L’innovazione nel comunicare il prodotto (o nello sperimentare) è vista con un po’ di diffidenza e produttori minori che osano nuove strade non hanno lo stesso riscontro che trovano altrove, come nel Regno Unito o, ancora, negli Stati Uniti. Dunque per l’Italia non è tanto una questione di se ma di quando cambierà: se vorrà rimanere un Paese significativo nel mercato internazionale, dovrà recuperare il tempo perso.
 


24/05/2019


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