How it's made

Dentro l'officina del packaging

Per trasformare carta e cartone, o anche plastiche e materiali compositi, in imballi non basta la creatività. Ci vuole la massima integrazione tra progettazione, stampa e altre lavorazioni industriali da orchestrare in una precisa sequenza che trasformi buone idee in buoni packaging.

Di Lorenzo Capitani | Su PRINTlovers 106

Un paraboloide iperbolico: è questa in termini matematici la forma di una Pringles. Siamo agli inizi degli anni ’60 e la Procter & Gamble, che voleva realizzare nuove chips tutte uguali, sfruttò una struttura già nota in architettura che avrebbe assicurato alla patatina una resistenza altissima; serviva però un packaging adatto.

La soluzione venne nel 1966 dall’ingegnere chimico Fredric J. Baur che pensò a un tubo, sigillato e sottovuoto, chiuso da un tappo inferiore in metallo e uno superiore in plastica. Nacque così il design iconico del tubo in tetrapack che conosciamo. Riciclabile al 100% e riconosciuto da tutti, il contenitore è perfettamente ergonomico, consente un’ottima protezione a un prodotto fragile come le patatine, è richiudile, impilabile e facilmente stoccabile e trasportabile: insomma è il contenitore ideale. Probabilmente in nessun’altra confezione come in quel tubo 25,5x8,5 cm è racchiusa l’essenza della cartotecnica, che non è solo “fare una scatola”, ma studio, progettazione, conoscenza del prodotto, della sua vita e della sua logistica, dei suoi consumatori, riuso e smaltimento. Un’industria che oggi solo in Italia vale quasi 9.971 milioni di fatturato e conta più di 62.000 addetti.

Chi ben progetta

Basta guardarsi intorno per accorgersi che siamo circondati di prodotti cartotecnici, astucci, scatole fustellate, pieghevoli o a marmotta, cofanetti, wrap-around, scatoloni, valigette, brick, alveari, cestini... Per trasformare carta e cartone, o anche plastiche e materiali compositi, in imballi non basta la creatività, ci vuole la massima integrazione tra progettazione, stampa e altre lavorazioni industriali da orchestrare in una precisa sequenza che trasformi buone idee in buoni packaging. È capitato a tutti di lottare con una confezione o rovinare una scatola richiudibile perché non è chiaro come aprirla. Al di là della frustrazione che può generare un’apertura macchinosa, in generale l’aspetto comunicativo del packaging, essendo uno strumento potente, se non “maneggiato con cura” può portare danni anche gravi, fino a compromettere la reputazione di un marchio. È quello che è successo nel 2009 quando i succhi Tropicana, di proprietà di PepsiCo, modificarono completamente il loro brick, che non venne più “riconosciuto” dai consumatori: in due mesi le vendite calarono del 20% con una perdita di 30 milioni di dollari. Ancora più gravi le conseguenze dell’errore di progettazione grafica e strutturale dell’astuccio del Tylénol PM, un blando sonnifero da banco, quasi identica a quella del Tylénol Extra Strength, un potente antidolorifico, con il rischio di confondere i due prodotti. Come si progetta allora un buon packaging che non sia solo un bel concept ma sia adatto contemporaneamente a comunicare, proteggere, conservare, essere aperto, magari richiuso, riutilizzato e smaltito?

Nessuno butta via le scatole Apple

Secondo una ricerca del sito Medium, una scatola Apple supera ogni tendenza e di fatto resta l’imballo preferito dai consumatori, tanto ora che è minimale quanto prima che era molto più colorata. Qualsiasi confezione, infatti, è molto più di un semplice guscio protettivo: è l’estensione dell’esperienza del prodotto e del marchio stesso. Secondo uno studio congiunto delle università del Texas, Illinois e Georgia, un’impostazione minimale piace perché si tende ad associare la semplicità delle confezioni all’idea che i prodotti all’interno siano essenziali, quindi più concreti e “puri”. Non sempre però: quando si tratta di prodotti delle cosiddette “private label” il giudizio dei consumatori cambia di segno e il minimal viene percepito come poco rassicurante. Insomma, non c’è una regola. Perché il packaging è un messaggio, e come tutti i messaggi è relativo perché fatto di mittenti, destinatari e mezzi. Oggi l’attenzione all’estetica si è estremizzata e prima ancora di essere un contenitore, il packaging veicola un messaggio sul posizionamento del prodotto e sull’attenzione della marca al consumatore, ma deve essere tecnicamente ineccepibile per poter essere usato su impianti di confezionamento automatizzato, garantendo prestazioni adeguate alle linee di produzione.

Punti di vista

In questo equilibrismo tra creatività, funzionalità e sostenibilità, il primo problema da affrontare è la varietà delle soluzioni che la cartotecnica offre: cercando la novità o l’originalità, si rischia di perdere il focus principale, ovvero il prodotto, la sua natura e come deve arrivare al consumatore. Per questo nell’approcciare il progetto la prima cosa da fare è considerare 4 punti di vista principali: quello dell’azienda cui appartiene il brand del prodotto, quello del marketing, quello del cartotecnico, e quello del designer.

Partiamo dall’ultimo. Il buon designer, cosa diversa dal creativo, dovrebbe possedere sufficienti conoscenze di cartotecnica e avere tutte le necessarie informazioni sul prodotto. Pensiamo, per esempio, a un astuccio per integratori in capsule: il contenuto può essere sensibile all’umidità, alla luce o agli sbalzi di temperatura, può viaggiare a lungo, essere esposto in farmacia, in supermercato o acquistato online, con esigenze di comunicazione diverse. Il packaging deve essere facilmente apribile e richiudibile, contenere un foglietto illustrativo, garantire l’integrità del blister. Inoltre, deve riportare precise diciture, comunicare fiducia e qualità, risultare familiare e rassicurante, ma anche diverso rispetto alla concorrenza.

C’è poi il punto di vista dell’azienda che conosce il prodotto, il mercato, la filiera e la sua logistica, e per la quale quel pack rappresenta nello stesso momento il contenitore e l’identità visiva del proprio brand. La sfida sta proprio nel trovare la soluzione più adatta in termini di comunicazione (ovvero il punto di vista del marketing), performance, ergonomia d’uso, economia produttiva e oggi, finalmente, smaltimento.
E qui entra in gioco il punto di vista del cartotecnico che è il miglior alleato nella progettazione dell’imballo, perché il più esperto di tecnologie, materiali e accorgimenti tecnici. Di solito si parte dal prodotto che dovrà essere contenuto nell’astuccio/espositore. Successivamente si valutano quantitativi, nobilitazioni e tipo di utilizzo dell’imballo. Nel caso di imballi primari MOCA (Materiali e Oggetti a Contatto con gli Alimenti, NdR) vanno considerati attentamente anche gli aspetti normativi. L’esperienza aiuta molto a definire la soluzione giusta anche in relazione alla capacità di spesa. Il packaging impatta sulla composizione del prezzo finale di un prodotto. Una cosa è una confezione per la pasta per la GDO, un’altra un astuccio per un profumo: se ci sono economie da rispettare (e ci sono sempre), o vincoli di produttività sulle linee di confezionamento, la produzione “vince” sul marketing. Nella stragrande maggioranza dei casi si lavora sul compromesso e sull’equilibrio, armonizzando estetica, comunicazione e rigore produttivo.

Dall’idea alla carta

Perché un’idea diventi un pack, deve passare da un file esecutivo, che arriva in cartotecnica e viene sottoposto a una verifica scrupolosa. Non è solo questione di come impaginare gli elementi grafici o dare le abbondanze, ma anche di incorporare in un livello separato i tracciati di fustella e piega, le vernici con le riserve per l’incollatura e le altre nobilitazioni previste. È questo il momento di verificare che il progetto sia davvero producibile con i macchinari e i materiali previsti, e che funzioni una volta realizzato, considerando tolleranze e deformazioni, stress meccanici e termici.

Qui entra in gioco l’ufficio tecnico. È il punto di incontro tra creatività e ingegnerizzazione, in cui si traducono le intenzioni del brand in soluzioni cartotecniche realizzabili. Il team tecnico analizza ogni aspetto, valida o propone alternative: tipo di cartone, grammatura, tipo di apertura e chiusura, incastri, punti colla, tolleranze meccaniche, incidenza della stampa e delle finiture. In pratica, si costruisce l’anatomia del packaging. Spesso è qui che si fanno le prime scelte chiave: un incastro al posto di un punto colla può fare la differenza in fase di montaggio automatico; una finestra può rendere visibile il prodotto, ma può indebolire la struttura. Si lavora sul dettaglio, si cercano soluzioni nuove o se ne applicano di collaudate. Pensiamo all’iconica scatoletta delle Pastiglie Leone. Apparentemente semplice, è il risultato di un perfetto equilibrio tra estetica rétro e funzionalità produttiva. Compatta, in cartoncino pieghevole con apertura a sportellino, è progettata per essere montata automaticamente con precisione millimetrica. La chiusura è senza punti colla, per facilitarne il riutilizzo e lo smaltimento, la struttura deve garantire la protezione dall’umidità e dallo sbriciolamento, mentre la scelta della carta, opaca e ruvida, è decorativa perché richiama la tradizione erboristica del marchio, ma è adatta al passaggio sulle linee automatiche e tiene perfettamente la stampa a caldo.

Una volta validata la struttura e adattato l’esecutivo alle esigenze produttive, si passa al prototipo. Il mock-up, il più vicino possibile al reale comprese le nobilitazioni è un indispensabile strumento di test. Questa sorta di ciano 3D serve a valutare la resa estetica, a verificare come gira la grafica realmente (uscendo dalle simulazioni dei software di render o dalla bidimensionalità del vettoriale), la tenuta strutturale, l’ergonomia d’uso, la macchinabilità e, in molti casi, anche la risposta sul punto vendita. È su quel campione che verrà dato il via libera alla produzione.

Il ruolo chiave del colore

A meno che non occorra preparare il supporto come nel caso dei laminati, è con la stampa che il pack inizia a prendere forma con i colori, la grafica, il lettering, i loghi, le texture e le informazioni. La tecnologia dipende dalle scelte e le scelte dipendono dalle tecnologie a disposizione per ottimizzare tutto, resa, tempi, costi e sostenibilità. Restando nel mondo della carta, offset, flexo o digitale? Dipende da tiratura, tipo di supporto e grado di personalizzazione richiesto. L’offset è lo standard per l’alta qualità su cartoncino teso: garantisce definizione e coerenza cromatica, ideale per astucci cosmetici o alimentari. La flexo si usa di più su cartone ondulato e in grandi volumi, mentre il digitale, come per la stampa commerciale, è adatto alle basse tirature, alle personalizzazioni spinte o ai test. Poi ci sono le nobilitazioni: verniciature lucide o opache, rilievi a secco, serigrafie, stampe a caldo, plastificazioni soft-touch. Ogni scelta ha un impatto estetico sul risultato, ma anche sulla compatibilità con le fasi successive di lavorazione e inserimento del prodotto e sulle rese e resistenza finale. Una vernice UV può esaltare un dettaglio, ma può creare problemi in piega; una lamina metallica impreziosisce, ma richiede estrema precisione nel registro. Tutto va pensato a monte, e dipende dal budget e dalle esigenze a valle, spiega Nicola Prevedello, direttore commerciale di Logo SpA. Le cartotecniche hanno attrezzature diversificate e sono ottimizzate rispetto a quantitativi e alle lavorazioni richieste, garantendo la maggiore ottimizzazione dei costi.
Un aspetto chiave è la gestione del colore, soprattutto perché occorre garantire una corretta adesione agli standard colorimetrici sui diversi supporti e sulle diverse tecnologie di stampa. Si lavora allora con prove colore, profili ICC, dati cromatici digitali dei singoli colori, ovvero la loro descrizione in valori assoluti secondo lo spazio colore Lab (o CIELAB), e simulazioni su supporto reale. L’identità visiva è tutto, un colore sbagliato può far scartare un’intera commessa, ma bisogna anche trovare un’ottimizzazione dell’uso dei colori sfruttando la cosiddetta sostituzione dei componenti grigi (GCR): poiché determinate combinazioni di CMY possono essere considerate grigie, è possibile sostituirle parzialmente o completamente con il nero. Ma si può anche ricorrere alle tinte piatte o formulazioni alternative: per esempio il marrone C31 M61 Y73 K58 ha una formulazione alternativa senza il ciano (M48 Y62 K72) e corrisponde al Pantone 161. Meno colori significano meno lastre, meno inchiostro, costi inferiori, maggiore stampabilità e minori tempi di asciugatura.

Fustella, colla e occhio fino

Dopo la stampa si entra nella fase più fisica e meccanica dell’intero processo: quella in cui un foglio, spesso di carta o di cartoncino testo, viene trasformato da piano a tridimensionale, e per far questo quasi mai manca la fustellatura, ovvero una lavorazione in cui vengono tagliati i contorni del pack e impresse le pieghe. È qui che si creano aperture, linguette, finestre, scanalature, incastri, mezzi tagli, zigrinature. Ogni millimetro è calcolato, ma ogni variazione di spessore, materiale o umidità può cambiare il comportamento del cartone. Inoltre, bisogna calcolare le deformazioni, tenere in considerazione i punti di stress e gli accoppiamenti di materiali, le tensioni superficiali dei supporti, e persino la stagione. Di norma ci si riferisce ai disciplinari dei produttori di materiali e molto spesso si fanno dei test di produzione per determinare se i risultati sono conformi alle aspettative. La cartotecnica oggi è un mondo in cui le combinazioni di materiali e di processi sono pressoché infinite, quindi la prova sul campo rimane ancora l’unico valido strumento di verifica. Negli imballi accoppiati, come cartoncino e cartone ondulato, è bene usare la laminazione (o plastifica) sugli alti spessori per evitare le rotture nei punti critici. Oppure accoppiare onde scoperte al posto dei microonda, che sono più flessibili e morbide, migliorando così la tenuta sui punti critici.

Se l’imballo va consegnato al cliente chiuso, il cartotecnico passa all’incollatura, spesso realizzata su linee automatiche ad alta velocità dette piega-incolla, dove ogni piega deve combaciare con l’altra e la colla deve aderire solo dove serve. E ancora una volta una buona progettazione è indispensabile, non solo per la scelta della colla, ma soprattutto per la scelta dei punti di adesione e delle zone da lasciare libere da stampa e vernice per favorire l’adesione in velocità.

In tutto questo, il controllo qualità rimane un passaggio strategico, non solo a valle del processo ma integrato in ogni fase. La tecnologia, intelligenza artificiale compresa, oggi dà sicuramente una grossa mano: dai sistemi automatici di visione che rilevano microdifetti, fino al collaudo manuale finale, il pack viene controllato, testato, a volte smontato e rimontato. Perché c’è ancora una componente umana irrinunciabile: la produzione di packaging in cartoncino e affini rimane ancora un mondo con diverse fasi legate alla capacità dell’uomo di fare un ottimo lavoro. Una progettazione accurata e un controllo in ogni fase sono ancora la miglior garanzia di arrivare a destino con un prodotto di qualità. La cartotecnica rimane per molti aspetti una attività con una parte di artigianalità, in cui cura ed esperienza fanno la differenza: per questo facciamo in casa tutte le lavorazioni, dalla stampa all’accoppiatura, dalla fustellatura all’incollaggio, comprese tutte le nobilitazioni e le confezioni manuali per le esigenze più rare o complesse.

Insomma, se, come scrive JoAnn Hines, conosciuta come The Packaging Diva, “il packaging è un venditore silenzioso. Parla senza dire una parola, ma solo se è stato progettato per farlo”, la cartotecnica è l’arte che trasforma i fogli in forme, le idee in oggetti, i marchi in esperienze.


13/06/2025


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