Inchieste e ispirazioni

Dai diamanti non nasce niente, dagli scarti tessili...

…Nascono nuovi prodotti circolari. Il più grande non detto di quest’industria riguarda la gestione dei rifiuti che, per la maggior parte, finiscono ancora in discarica. Eppure, oltre a ridurre l’impatto ambientale, possono dar vita a inedite opportunità creative.

Di Caterina Pucci | Su PRINTLovers 92

A novembre 2021 la rivista Fortune pubblica dal titolo memorabile: “Patagonia non usa la parola sostenibilità. Vi spiego perché”. A firmarlo è Beth Thoren, Environmental action & initiatives director del noto brand di outwear per l’area EMEA. In questa lettera aperta, Thoren fa mea culpa, spiegando che Patagonia sa di essere parte del problema e che “compensare le emissioni a pagamento non cancella l’impatto ambientale e non ci salverà sul lungo periodo”. Rivolgendosi poi agli altri brand li invita a “smetterla con le chiacchiere vuote”, denunciando la mancanza di chiarezza del mondo della moda “che alimenta il greenwashing e blocca le azioni concrete”. Del resto i consumatori hanno preso confidenza con il concetto di economia circolare e pretendono che alle parole corrispondano i fatti. Gli slogan di sensibilizzazione non bastano più, occorre intraprendere azioni concrete per garantire il tracciamento della filiera. Uno dei problemi principali riguarda gli scarti tessili, smaltiti prevalentemente in discarica. Le più recenti normative in materia di riduzione dell’impatto ambientale stanno provando a coinvolgere in maniera più attiva le aziende tessili. In tal senso l’Italia sembra essere sulla buona strada. In anticipo sulle disposizioni europee, a partire dal 1° gennaio 2022, il decreto legislativo n.116/2020 (art.2) ha disposto un coinvolgimento diretto di produttori, importatori e distributori nelle attività di riciclo e recupero. Ne abbiamo parlato con Roberto Cozzi, presidente del Comitato di Gestione di FOR Textile, Fulvio Alvisi, presidente Associazione Italiana Disegnatori Tessili e docente di Textile Design presso l’Accademia di Belle Arti Aldo Galli, Giuseppe Bosio, Textile expert, Andrea Moretti, responsabile commerciale di Tutto Tessile, e Ivan Balossi, titolare di Sublylife.

È la second hand economy, baby
Secondo la ONG Ecos, l’80% dell’impatto ambientale di un capo d’abbigliamento è determinato in fase di design. E secondo una stima della Ellen MacArthur Foundation, ammonta a 100 miliardi di euro il valore degli scarti tessili che ogni anno vengono inceneriti o avviati a discarica, senza essere sottoposti a operazioni di riciclo e recupero. Se negli ultimi anni brand e stilisti hanno espresso il loro interesse ad adottare un approccio più sostenibile, ora è il momento di andare oltre, investendo in un utilizzo più efficiente dei prodotti e promuovendo il riuso dei materiali generati in fase post consumo, cioè alla fine della vita utile di un capo o di un accessorio. Per Fulvio Alvisi, stiamo assistendo alla nascita di nuovi modelli di business ispirati alla second hand economy, che consiste nel recupero e compravendita dell’usato. Rispetto al 2016, le persone che acquistano capi usati sono aumentate del 64%. Sono soprattutto i più giovani a portare avanti questa battaglia: il 46% della Gen Z acquista da negozi di seconda mano e dichiara di preferire questi prodotti a quelli provenienti dal mercato del fast fashion. Il fenomeno ha progressivamente conquistato anche il mondo del lusso, come dimostra il successo di Vestiaire Collective o Tradesy. Non solo compriamo più usato, ma lo prendiamo anche in prestito. Lo dimostra il gruppo URBN (proprietario dei marchi Urban Outfitters, Free People e Anthropologie), la cui attività di noleggio di abbigliamento, Nuuly, è cresciuta di sei volte in due anni, raggiungendo un valore di 47 milioni di dollari lo scorso anno.

Riuso più creativo grazie al digitale
Un discorso a parte merita l’upcycling, termine coniato nel 1994 dall’ingegnere tedesco Reiner Pilz che in un’intervista disse che considerava il riciclo down-cycling, mentre quello che ci serve davvero è l’upcycling, grazie ai quali ai vecchi prodotti viene conferito più valore, non meno. Si può tradurre con l’espressione “riuso creativo” proprio perché punta a trasformare gli oggetti in nuovi prodotti di maggior qualità, reale o percepita. La stampa digitale si è rivelata un’ottima alleata nella valorizzazione dei capi d’abbigliamento usati. Dal connubio tra innovazione tecnologica e creatività sostenibile è nato infatti “Upcycling: con Epson la moda si fa sostenibile”, un progetto che ha visto coinvolti Epson, l’Accademia di Belle Arti Aldo Galli IED Network di Como e greenchic, che è stato il primo marketplace italiano di moda pre-loved (chiuso poi a dicembre 2022, ndr). L’obiettivo è stato riscrivere il destino degli abiti usati. Sotto la supervisione di Fulvio Alvisi, coordinatore del master in Textile: Design, Innovation, Sustainability dell’Accademia, nove studenti hanno selezionato alcuni capi messi a disposizione da greenchic e li hanno trasformati in nuovi pezzi unici e originali, grazie alle possibilità di personalizzazione offerte dal digital printing. Per stampare i capi, si sono serviti di una stampante a sublimazione Epson SureColor SC-F100. Gli outfit sono infine stati sottoposti a un sondaggio al quale ha partecipato la community di greenchic che ha votato il modello preferito. 

Le vie del riuso sono infinite
Nel corso dell’Assemblea Generale di FESPA Italia 2022, federazione di associazioni di categoria dell’industria serigrafica e della stampa digitale, che si è tenuta a Milano il 18 febbraio scorso, Giuseppe Bosio, Textile Expert, ha spiegato che solo imparando a riconoscere le diverse tipologie di fibre è possibile individuare le tecnologie di stampa e finitura più indicate a un certo tipo di applicazione. Oltre a investire nello sviluppo di soluzioni meno inquinanti e di materiali innovativi, occorre ragionare sul ciclo di vita dei prodotti per capire come lavora la filiera e come funzionano le operazioni di riciclo e recupero post consumo. Tanto per cominciare, lo smaltimento varia a seconda che si tratti di un capo post consumo (indossato e arrivato a fine vita), preconsumo (mai utilizzato), pezze (cioè strisce di tessuto senza orli né finiture) o ancora quelli che in gergo vengono chiamati “scampoli”, cioè parti residue di una pezza. Tutto Tessile è un’azienda bergamasca che si occupa proprio del recupero di quest’ultima categoria di scarti tessili. I materiali raccolti possono essere sia fibre naturali che sintetiche e provengono da manifatture, cotonifici, maglifici, ma anche imprese addette al confezionamento dei capi. «Prima di procedere con la raccolta per mezzo di container, ogni realtà viene sottoposta a una sorta di “audit” interno, che ci serve a valutarne l’idoneità» spiega Andrea Moretti. Una volta recuperati, gli scarti sono sottoposti a una fase di cernita, che consiste nella separazione delle diverse fibre. Non è detto che tutte possano essere riciclate o recuperate.La loro “riusabilità” dipende da molte variabili. Ad esempio, la qualità delle fibre da cui sono composti, i pigmenti con cui sono stati stampati e i trattamenti chimici e meccanici ai quali sono stati sottoposti. «Le fibre miste sono più difficili da recuperare - prosegue Moretti - perché ciascuno dei materiali da cui sono composte ha un fine vita diverso. La presenza di occhielli di metallo (usati soprattutto nella comunicazione visiva per realizzare banner o appendibili, ndr), praticamente impossibili da eliminare, rende difficili le operazioni di recupero e smaltimento». Nel caso di Tutto Tessile, circa l’80% del materiale processato viene riciclato, ovvero esce dall’impianto sotto forma di materia prima e viene spedito a ovattifici e filature che lo utilizzano nuovamente nella produzione.

Una stampa pubblicitaria più ecologica è possibile
Alcuni scarti trovano applicazione nell’ambito della comunicazione visiva, dove il tessuto la fa da padrone già da una decina d’anni. La bergamasca Sublylife è specializzata in stampa sublimatica su vari materiali, dai tessuti tecnici ai materiali rigidi come lamiere e vetri. Da poco ha lanciato un progetto parallelo, Green Print per rendere più sostenibile e compostabile la stampa pubblicitaria. Stampando su materiali naturali come bambù, canapa e viscosa, Green Print sta brevettando un processo di stampa digitale compatibile con tessuti ricavati da materiali compostabili. Gli ambiti di applicazione di questa tecnologia spaziano dall’interior all’outdoor, dagli allestimenti fieristici al retail. Le applicazioni stampate finora hanno passato tutti i test in materia di ecotossicità e sono state certificate compostabili, secondo la normativa UNI EN 13432. «Il vantaggio per le aziende che decideranno di usufruire del nostro servizio è che dopo la rimozione, il materiale verrà conferito ad impianti di compostaggio dedicati e, passati 90 giorni, si trasforma in compost ricco di sostanze nutritive e fitotossico ai sensi della linea guida OECD 208, che può essere utilizzato come fertilizzante anche in coltivazioni biologiche» spiega Ivan Balossi. «Secondo i risultati dei test che abbiamo condotto, la stampa su materiali compostabili non compromette le caratteristiche estetiche funzionali tipiche del tessuto vergine. La resa cromatica è paragonabile a quella ottenuta con stampa sublimatica. Lo stesso vale per la resistenza agli agenti esterni: anche dopo 4 o 5 mesi i campioni non hanno perso la loro brillantezza. Se vogliamo parlare di economia circolare, il bello della nostra tecnologia è che permette di creare un ciclo aperto e non chiuso, perché dal fertilizzante nascerà una nuova pianta e quindi nuova vita».

L’importanza di certificarsi
Ridurre l’impatto dell’industria tessile è possibile solo adottando un approccio alla sostenibilità a 360 gradi, che tenga conto non solo di fattori ambientali, ma anche sociali e di governance. Secondo Roberto Cozzi,è ormai consuetudine, per coloro che intendono lavorare nella filiera moda, adeguarsi a una serie di standard internazionali che i brand hanno sottoscritto o addirittura stilato. I più diffusi sono il Global Organic Textile Standard (GOTS) e il Global Recycle Standard (GRS). Come suggerisce il nome stesso, il primo fa riferimento a fibre tessili organiche come lana, seta e cotone; il secondo a prodotti contenenti materiali riciclati. «Sono molto ricercati perché controllano l’intera filiera, cioè si applicano a tutte le aziende coinvolte, sia a livello produttivo che commerciale. Questo significa che anche un importatore, che si occupa solamente di vendere il prodotto finito, deve certificarsi se vuole lavorare con la maggior parte dei marchi presenti sul mercato». Per la viscosa, fibra semiartificiale ottenuta dalla lavorazione della cellulosa del legno, una delle certificazioni più richieste è FSC, specifica per il settore forestale e i prodotti legnosi. Che però non garantisce il controllo dell’intera filiera, ma solo dei passaggi di compravendita. Anche per questo sono nati progetti come Canopy, un’organizzazione no profit canadese che vuole rendere più sostenibile la filiera dell’approvvigionamento della cellulosa. Esistono poi delle liste di sostanze vietate che tutti i fornitori devono sottoscrivere per lavorare in un determinato segmento. La principale è RSL (Restricted Substances List) che può essere integrata da altre più specifiche come la ZDHC MRSL, riservata al settore manifatturiero. Ogni brand può inoltre creare la propria PRSL, una lista ad hoc che indica a quali processi e pratiche i propri partner devono adeguarsi. Se fino a poco tempo fa questi discorsi sembravano toccare superficialmente il mondo dell’interior decor, oggi non è più così. «Servendoci delle analisi e dei dati forniti dai nostri soci, stiamo mettendo a punto nuove schede dedicate al mondo dell’arredo, degli imbottiti e dei tendaggi» prosegue Cozzi. «Esistono una serie di requisiti specifici per queste industrie come, ad esempio, la capacità di un tessuto di resistere all’abrasione o la tendenza al pilling (che comporta la formazione di agglomerati di fibre irregolari, i cosiddetti pallini, ndr). Bisogna inoltre tener conto delle esigenze maturate da alcuni Paesi. Negli Stati Uniti e in Giappone, la resistenza al fuoco è un requisito imprescindibile sia per i tessuti destinati a spazi pubblici, come cinema e teatri, sia privati». L’adesione a un marchio di certificazione come FOR Textile, che da oltre vent’anni si impegna a valorizzare la tradizione tessile del distretto comasco, può aiutare le imprese non solo a rendere misurabile il proprio impegno sul fronte della sostenibilità, ma anche ad approcciare mercati dei quali non si conoscono tutte le caratteristiche che, d’altro canto, sono in costante aggiornamento.

Viaggio al centro delle certificazioni

Global Organic Textile Standard (GOTS) garantisce che i prodotti tessili biologici siano ottenuti nel rispetto di stringenti criteri ambientali e sociali. Si applica a tutte le fasi della filiera produttiva, dalla raccolta delle fibre alle successive fasi manifatturiere, fino all’etichettatura del prodotto finito. Ha ottenuto vasto riconoscimento e ciò permette di avere una certificazione accettata in tutti i principali mercati.

Global Recycle Standard (GRS) si applica alle imprese che producono e/o vendono semilavorati o prodotti finiti contenenti materiali riciclati. Anche questa si applica all’intera filiera di produzione, inclusa la fase logistica.

OEKO-TEX Standard 100 creata nel 1992, garantisce che i prodotti tessili (materie prime, semilavorati, capi finiti) non contengano o rilascino sostanze dannose per la salute. I test per sostanze nocive si basano sulla destinazione del prodotto, per cui quanto più intensivamente un prodotto deve entrare in contatto con la pelle, tanto maggiori saranno i requisiti da soddisfare. La Classe di prodotti più restrittiva è la numero 1, quella relativa a prodotti (biancheria intima, tutine, biancheria per la culla/letto) ma anche giocattoli in tessuto destinati a neonati e bambini fino ai tre anni.

European Flax garantisce la qualità della fibra di lino europea, certificando l’origine 100% europea della fibra di lino (proveniente da Francia, Belgio e Olanda) e il rispetto dell’ambiente secondo tre principi chiave: zero irrigazione, zero OGM, zero sprechi.

Responsible Wool Standare (RWS) promosso da Textile Exchange, una delle più importanti organizzazioni no profit internazionali per lo sviluppo responsabile e sostenibile nel settore tessile. Prevede il rilascio di una dichiarazione ambientale verificata da parte terza che assicura che la lana proviene da allevamenti gestiti in modo responsabile nel rispetto di stringenti criteri per il benessere animale e per la riduzione dell’impatto ambientale e il mantenimento della tracciabilità lungo l’intero processo produttivo. Rientra nella certificazione l’intera filiera produttiva dalle aziende zootecniche alla manifattura prodotti tessili.

Canopy organizzazione no profit canadese che cerca di rendere più sostenibile la filiera dell’approvvigionamento della cellulosa (da cui si ricava la viscosa).

Better Cotton Initiative organizzazione no profit mondiale che punta a trasformare la filiera del cotone, combattendo l’impatto negativo nelle fasi di coltivazione e lavorazione, salvaguardando e implementando lo sviluppo economico degli operatori della filiera.

FOR Textile è un sistema di certificazione di prodotto e di processo che deriva dall’evoluzione del marchio Seri.Co, le cui origini risalgono al 2001. Viene rilasciata da TÜV Rheinland Italia, organismo di certificazione indipendente, a fronte di uno specifico mandato conferito da Centro Tessile Serico Sostenibile, proprietario e gestore del marchio.


22/04/2022


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