Fotografia

Postproduzione, un gesto estetico che non si vede

Figura di raccordo tra il fotografo e lo stampatore, il postproduttore c’è ma non si vede. È il responsabile della foto perfetta per la stampa, un lavoro fatto di competenza tecnica, sensibilità e capacità interpretativa. Ne parliamo con Matteo Tranchellini, da vent’anni riferimento nel panorama italiano della comunicazione pubblicitaria legata all’immagine.

Di Michela Pibiri | Su Print 76



Una storia cominciata nel fotolito
Matteo Tranchellini, milanese, 50 anni, si è formato all’Istituto Rizzoli di Milano e ha un passato nella fotolitografia che gli ha dato una visione analogica delle cose. Oggi lo studio che por ta il suo nome è specializzato nell’elaborazione digitale delle immagini: dalla messa a punto cromatica a piccoli interventi migliorativi, fino alla creazione di immagini complesse e alla modellazione 3D, e lavora con agenzie come Saatchi & Saatchi, J. Walter Thompson e McCann Erikson. Editoria, cinema e soprattutto pubblicità sono i settori di riferimento, con una passione per Automotive&Motorcycle (Ferrari, Maserati, Renault, Moto Guzzi, Aprilia), per il Fashion (Dior, Valentino, Armani, Vogue e Glamour) e per il Food&Beverage (Martini, Campari, Cinzano e Barilla). Lo studio è specializzato anche in produzioni ar tistiche e d’autore, con una grandissima competenza nella stampa fine art.

Quanto è importante la competenza acquisita con la fotolitografia nel lavoro di postproduzione digitale?
Per me è fondamentale. Faccio parte della generazione protagonista del passaggio dall’analogico al digitale e ho lavorato nel fotolito sia come cromista che come montaggista a mano. I miei strumenti erano maschere e pennello, e chi come me operava in questo settore deteneva un sapere empirico ma straordinariamente approfondito. Il cromista doveva avere occhio e sensibilità, doveva essere in grado di percepire variazioni del 3% sul puntino guardando un’immagine attraverso il lentino. E anche se quella del fotolitista è una figura strettamente tecnica, a differenza di quella del postproduttore che è anche interpretativa, il bagaglio che ho acquisito è di grande importanza perché, malgrado siano cambiati i mezzi, la stampa funziona sempre in quadricromia, e il computer ragiona sempre per quattro canali. Sapere che un grigio può avere equilibri diversi a seconda delle percentuali dei quattro colori mi permette di ragionare come lo stampatore, di evitare a monte i problemi che possono nascere in fase di stampa tutte le volte che un esecutivo viene preparato basandosi solo sulla resa a monitor, approccio che spesso ha chi è nato e cresciuto esclusivamente col digitale.

Qual è il processo di realizzazione dell’immagine perfetta?
Si deve partire sempre da un’idea creativa il più possibile precisa, per non farsi dominare dai mezzi e dalle loro infinite possibilità. Ci sono campagne in cui il layout è molto chiaro e lo spazio creativo è minimo; in altre l’idea prende forma strada facendo, e anche il postproduttore ha il suo peso nelle soluzioni creative. Le strade sono molteplici: ci può essere lo scatto da perfezionare sul semplice piano cromatico e ci può essere l’immagine da comporre partendo da numerosi scatti da montare insieme, come avviene nell’automotive in cui viene realizzato uno scatto per ogni dettaglio. Nel corso del tempo ci siamo specializzati anche in modellazione 3D, uno strumento molto versatile per la creazione di elementi da utilizzare da soli o all’interno di immagini complesse. Il livello di perfezione tecnica è estremo: si può, per esempio, modellare una bottiglia di vino restituendo alla perfezione la trasparenza del vetro, la consistenza materica della carta, le nobilitazioni dell’etichetta. Così si eliminano a monte tutte le imperfezioni che potrebbero esserci nello scatto fotografico e si ottiene un’immagine che può essere utilizzata all’infinito, ingrandita quanto si vuole e posizionata in tutte le angolazioni e ambientazioni possibili senza dovere, ogni volta, ripetere lo shooting.

Fin dove si può spingere la postproduzione nell’immagine pubblicitaria?
Il senso del limite è frutto di molti fattori: c’è il brief del cliente e il risultato che vuole ottenere, certo, ma molto dipende dalla sensibilità del postproduttore. E non dimentichiamo il contesto: quando la postproduzione digitale è nata si tendeva a portarla ai suoi limiti estremi. Era un nuovo giocattolo da sperimentare e tutti volevano mostrarne la muscolarità. C’è stato un momento, nell’arte e nella pubblicità, in cui si andava per estremi: la postproduzione esagerata, barocca e surreale di David LaChapelle, per intenderci, e la fotografia nuda e cruda come forma di provocazione di Thierry Richardson.

C’è, in questo momento, una tendenza estetica prevalente?
Come tutte le cose che vengono metabolizzate col tempo, la postproduzione ha raggiunto il suo equilibrio e ora tende verso un’estetica naturale, in cui il lavoro ben fatto è quello che non si nota. Ma dal punto di vista della comunicazione visiva è un momento in cui sembra manchino punti di riferimento precisi, un po’ perché assistiamo a un impoverimento culturale – e arte e pubblicità sono sempre andate a braccetto, mutuando reciprocamente i propri linguaggi – e un po’ perché molti parametri basati su stereotipi sono giustamente stati messi in discussione e non si sa bene da dove ripartire.

Come si potrebbe definire il rapporto tra postproduttore e fotografi, e cosa si prova a intervenire sul lavoro di grandi autori?
Ho avuto la fortuna di lavorare con star della moda come Marino Parisotto, Giampaolo Barbieri e Brigitte Niedermair. Lavorare con persone di grande carisma non è sempre semplice perché si mette mano a lavori fortemente personalizzati, ma arricchisce moltissimo il proprio bagaglio culturale e dà enormi soddisfazioni. Nel momento di massima sperimentazione, la postproduzione è diventata in alcuni casi addirittura prevalente rispetto alla fotografia in sé, tanto che i portfolio di molti fotografi si distinguevano per l’impronta di chi aveva fatto la postproduzione. In quel momento la mia figura veniva percepita come una minaccia anche se poi, per quanto un’immagine possa essere manipolata, i diritti sull’opera restano sempre in capo al fotografo.

Quando si progetta un’immagine fotografica si tiene conto dei supporti di stampa e della tecnologia che si utilizzerà?
Non è frequente che si metta a punto l’immagine fotografica sulla base della carta o sulla macchina che verrà utilizzata: quella è una competenza specifica dello stampatore. Piuttosto il ragionamento è inverso: a partire dall’immagine realizzata, si scelgono le tecnologie e i supporti più adatti a valorizzarla. Il mio lavoro di solito termina con la messa a punto del profilo di stampa corretto e la garanzia che l’immagine rispetti degli standard, fornendo, se necessario, una prova di stampa certificata. Nei casi in cui ho modo di scegliere il supporto o la tecnologia, seguo l'avviamento macchine, relazionandomi con lo stampatore che alla fine dà la curva precisa.

Quindi, dal punto di vista tecnico, la stessa fotografia può andare bene per un catalogo di alta gamma, un packaging e un quotidiano?
Le tecnologie di stampa sono talmente evolute che non è più necessario realizzare immagini diverse a seconda della destinazione. Anche sui quotidiani, un tempo spauracchio di brand e creativi, ormai si stampa la fotografia con una qualità eccellente. Il controllo sulla macchina è estremo, ogni dato numero di fogli viene fatto il controllo col densitometro, mentre prima avveniva tutto in maniera empirica: il cromista metteva le pellicole a bagno nell'acido, controllava temperatura e umidità e tutto era basato sulla sensibilità personale, con un margine di errore molto più ampio e tollerato.

Come si ottiene la prova di stampa certificata, e si realizza per tutti i lavori?
Si usa una stampante con caratteristiche specifiche, dotata di un software – il più usato adesso è GMG – che stampa l'immagine con una scala di valori che viene letta da uno spettrofotometro. Se la stampa si discosta del 3% dai suoi parametri, la prova di stampa non è valida. La richiesta di prova di stampa da parte dei committenti non è elevata, un po’ perché gli strumenti sono molto più evoluti di prima, un po’ perché alcuni clienti la fanno internamente, ma spesso, quando ho dei dubbi, la faccio per un controllo interno: c'è sempre un margine di errore che bisogna prendere in considerazione. I problemi oggettivi legati alla specificità della stampa si verificano nel 5% dei casi. Nel 95% si rispetta uno standard che va bene per la maggior parte dei lavori.

Un consiglio ai giovani che vogliono fare questo mestiere?
Arricchire la propria esperienza personale, leggere libri, andare a vedere le mostre, crearsi un bagaglio culturale. Bisogna essere curiosi e trasversali, perché la competenza tecnica nell’uso degli strumenti non basta. Pensiamo solo a come sono cambiati i riferimenti negli anni: ci sono film che hanno plasmato la nostra estetica. Avere dei punti di riferimento serve non soltanto a stimolare l’immaginazione, ma anche a essere in grado di reinterpretare un concetto e uno stile, perché si capisce come sono stati fatti, come sono nati e perché.

Concludiamo in bellezza con un libro molto particolare accompagnato da una mostra itinerante… come è nato e come è stato stampato?
Chic-ken è un lavoro a quattro mani realizzato col fotografo Moreno Monti. Si tratta di ritratti di galline ornamentali, riprese nelle loro pose naturali, da cui traspare tutto il carattere oltre alle peculiarità estetiche. L’idea è nata dalla frequentazione di fiere avicole molto diffuse nel Nord Europa, legate alla tradizione aristocratica settecentesca di popolare i giardini di bellezza. Il libro è stato realizzato grazie a una campagna di crowdfunding che ha avuto un successo inaspettato, ed è stato stampato in offset in 3500 copie da Kappadue Arti Grafiche di Treviso. Abbiamo scelto l’offset perché ci è sembrata la tecnologia più efficace per restituire le diverse gradazioni di nero degli sfondi, che nella parte alta diventano tutt’uno con il nero delle cornici delle pagine. Per quanto riguarda le stampe da esposizione, invece, abbiamo scelto una tecnologia ibrida, la Lambda di Colorzenith: la stampa avviene da file digitale con getto d’inchiostro su carta fotografica. Il laser fissa l’immagine che poi viene sviluppata in analogico, con bagno di sviluppo e fissaggio. Rispetto all’inkjet tradizionale, che già offre una qualità altissima, la Lambda permette alla luce di entrare nel pigmento, che si stratifica e restituisce una profondità straordinaria a immagini così ricche di contrasti e dettagli.



 


10/05/2019


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