Inchieste e ispirazioni

Musica da toccare

C’era una volta la gommalacca. E poi il vinile, il nastro magnetico, il CD, corredati di sleeve, copertine cartonate, digipack da impilare, booklet da sfogliare, leggere e guardare. Fino all’inizio del XXI secolo ascoltare musica registrata significava fare un’esperienza che coinvolgeva tutti i sensi, implicava l’emozione dell’attesa, l’acquisto nel punto vendita, l’archiviazione fisica dei supporti, tanto che quella tra musica, design e stampa è una delle storie d’amore più appassionate di sempre. Ma oggi che la musica è prevalentemente smaterializzata si può ancora “collezionare la bellezza”?

Di Michela Pibiri | Su
PRINTlovers 85

Sono passati quasi quarant’anni – era il 1° agosto del 1981 – da quando MTV inaugurò le sue trasmissioni in U.S.A. con il videoclip del brano “Video killed the radio star” nella versione pubblicata dai Buggles nel ‘79, destinato a diventare l’icona synth pop del decennio appena cominciato. La scelta della prima rete televisiva interamente dedicata alla musica marcò un passaggio epocale, intridendolo – con grande ironia – di quel sentimento nostalgico che si riaffaccia ogni volta che nuova tecnologia sembra voler spazzare via il passato cui siamo abituati e affezionati. Col senno di poi sappiamo che la radio non solo è sopravvissuta alla TV e al boom del videoclip, diversificandosi e reindirizzando il proprio potere mediatico e il proprio ruolo sociale; ma è anche diventata, negli anni Duemila, parte indissolubile di internet riconquistando il suo antico ruolo di influencer dei gusti e delle opinioni del pubblico. Dopo il videoclip in TV, la seconda sostanziale rivoluzione della music industry è avvenuta con la nascita del primo servizio peer to peer di massa, Napster, che a partire dai primi anni Duemila ha eroso gli introiti della musica distribuita su supporto fisico, complice una massiccia diffusione della pirateria poi arginata con la regolamentazione del download a pagamento. Fino all’ingresso, nel 2005, dei servizi in streaming come Apple Music, Spotify, Deezer, Amazon Music, Youtube Music, per citare solo alcuni tra i più noti, il cui peso è cresciuto gradualmente fino al 2015 per aumentare esponenzialmente negli ultimi cinque anni, risollevando le sorti di un’industria globale che tra il 2010 e il 2015 ha vissuto i suoi anni più bui.

Passato, presente e futuro del supporto fisico
Secondo i dati forniti dalla International Federation of the Phonographic Industry (IFPI), nel 2001 gli incassi globali della musica registrata erano rappresentati quasi esclusivamente dalla distribuzione tramite supporto fisico (98%), con una minima percentuale (2%) proveniente dai diritti di esecuzione pubblica delle registrazioni. Diciotto anni dopo, nel 2019, la suddivisione della revenue è completamente rivoluzionata: il supporto fisico rappresenta appena il 21,6% degli introiti per un totale di 4,4 miliardi di dollari. Il 56%, pari a 11,4 miliardi di dollari, è rappresentato dai servizi in streaming; la restante fetta è spartita tra diritti di esecuzione (12,6%), download (7,2%) e sincronizzazioni, ossia incassi derivanti dall’uso della musica per spot, colonne sonore e videogiochi (2,4%).
In Italia i dati forniti dalla FIMI – Federazione Industria Musicale Italiana – delineano un quadro analogo. Nel 2019 il supporto fisico pesava per il 22% sugli introiti dell’industry, per una somma di circa 53,4 milioni di euro sui 247,8 complessivi. Di questi, 37,25 milioni provengono dalla vendita di CD, 14,7 dalla vendita di vinili e 1,5 da “other physical”, categoria in cui rientrano supporti magnetici come le care vecchie musicassette e supporti digitali, come USB, destinate per lo più a edizioni speciali e promozionali. La maggior parte della revenue, nel 2019, proveniva inequivocabilmente dal segmento digital (71%) composto prevalentemente da streaming e, in misura residuale, da download. A settembre 2020 la FIMI ha pubblicato i primi dati influenzati dagli effetti del Covid-19: durante il lockdown a trainare il settore è stato, prevedibilmente, il digitale, schizzato all’86% di tutti i ricavi, con l’82% rappresentato dallo streaming che ha registrato una crescita del +33% degli abbonamenti nei primi sei mesi dell’anno. La chiusura temporanea dei negozi fisici e il blocco delle spedizioni di dischi da parte di Amazon ha segnato un crollo vertiginoso del fisico: il CD ha dimezzato (-51,44%) le vendite rispetto al primo semestre del 2019. La nicchia del vinile, invece, ha mantenuto la sua posizione, coprendo il 5% del mercato. Il bilancio complessivo per l’industry è tuttavia positivo: l’intero mercato discografico italiano è cresciuto del 2,1% rispetto al 2019 e tale risultato è frutto, in parte, del bonus cultura 18app che ha generato un fatturato di 10 milioni di euro (agosto 2020) a fronte di un coinvolgimento di 390.000 ragazzi aderenti all’iniziativa. Anche al netto dell’emergenza sanitaria, è dunque evidente che la tendenza verso la smaterializzazione non lascia spazio a un’inversione di rotta, ma, per quanto minoritario, il supporto fisico continua a rappresentare la seconda fonte di introiti dell’industry globale della musica registrata, e secondo il magazine musicale Billboard, è destinato a restare, se non a crescere nei prossimi anni, grazie alla fanbase degli artisti, che frequenteranno ancora i negozi per accaparrarsi le ultime release – anche se è difficile, ora, immaginare folle assembrate in attesa di un firmacopie –  e a una crescente schiera di collezionisti, soprattutto amanti dei vinili.

Collezionare la bellezza
A fronte di una minore quantità di dischi stampati, frutto anche di una politica di contenimento dei costi, le etichette sembrano puntare sulla qualità delle edizioni, che non solo ha maggiore attrattiva su un pubblico esigente, ma giustifica anche prezzi di vendita più alti. In questa prospettiva assumono un ruolo importante le edizioni limitate, i cofanetti antologici e quelli esperienziali, che prevedono una produzione di oggetti stampati che vanno dalle box, spesso nobilitate, alle copertine dei vinili, dai digipack dei CD con i rispettivi booklet a libri e album fotografici, poster, stampe serigrafiche e cartoline da collezione, oggettistica decorata, T-shirt e altri tessili stampati, fino alle numerose memorabilia da collezione come fedeli riproduzioni di biglietti di concerti, pass, fotografie e manoscritti. Veri e propri cimeli, insomma, che rafforzano il legame emotivo tra pubblico e artisti, ma anche oggetti esclusivi – perché costosi e limitati – destinati ad acquistare valore nel tempo.
Sul fatto che la relazione tra grafica e musica sia una delle storie d’amore più avvincenti del ventesimo secolo poi non ci sono dubbi. La nascita dell’LP a 33 giri, introdotto nel 1948 dalla Columbia Records in sostituzione dei dischi a 78 giri  – molto più piccoli – in gommalacca, ha offerto alla creatività di grafici, illustratori e fotografi ampio spazio di espressione in termini di superficie stampabile delle copertine, dando luogo a collaborazioni tra musica e arti visive che hanno avuto un grande impatto sull’immaginario collettivo: basti pensare a quanto sia ancora forte l’eco di “Unknown Pleasure”, album d’esordio dei Joy Division, il cui artwork, realizzato da Peter Saville nel 1979 ispirandosi al grafico delle frequenze della prima pulsar mai osservata pubblicato sulla Cambridge Encyclopaedia of Astronomy, è oggi declinato in campi che vanno dal fashion ai meme su internet, dall’home decor alla body art. Acquistare un disco in virtù del suo design è, per usare le parole di un altro gigante del settore, il designer e tipografo Stefan Sagmeister, «collezionare la bellezza». Un piacere e un’esigenza psicologica ben descritta dallo studio del 2019 della Keele University “The environmental impact of music: digital, records, cds analysed”: «In un mondo in cui sempre più la nostra economia e le nostre relazioni sociali avvengono online, i dischi e gli altri formati “vintage” contrastano questa tendenza. Il revival dei dischi rivela ciò che desideriamo vedere a un livello più ampio nel nostro mondo: esperienze che mantengono il loro valore e che durano nel tempo grazie alle nostre cure amorevoli. I formati musicali più vecchi hanno un senso di importanza e di permanenza, ci appartengono in un modo che i nostri acquisti virtuali semplicemente non fanno».

Il costo ambientale della musica
Saremmo facilmente portati a pensare che l’avvento dello streaming risolva il problema dell’impatto ambientale della musica. I supporti usati nella music industry, infatti  – al netto del packaging che tende sempre più a prediligere carta e cartone riciclabile al posto dei jewel case fragili e non riciclabili – sono tutt’altro che ecologici. Se la gommalacca usata fino ai primi anni ‘50 per produrre i dischi grammofonici era una termoplastica naturale, in seguito il mercato è stato conquistato dal PVC (cloruro di polivinile) e dalla combinazione – non separabile –  di policarbonato e alluminio dei CD: materiali di derivazione fossile che non solo non sono riciclabili, ma impiegano secoli per degradarsi. Lo studio della Keele University menzionato nel paragrafo precedente, tuttavia, sfata il mito di una smaterializzazione senza costi ambientali: considerando che i file elettronici sono immagazzinati in server sempre attivi e refrigerati, e che la loro trasmissione sui nostri dispositivi personali comporta un costante impiego di energia, la risposta su cosa sia più sostenibile tra musica digitale e musica su supporto fisico non è affatto scontata. Molto dipende dalle abitudini di ascolto individuali, conclude lo studio: «Se si ascolta una traccia solo un paio di volte, lo streaming è l’opzione migliore. Se la si ascolta ripetutamente, una copia fisica è la cosa migliore; lo streaming per più di 27 volte di un album su Internet utilizzerà probabilmente più energia di quella necessaria per produrre lo stesso CD». Ovviamente viene calcolato anche il costo energetico della riproduzione di un disco fisico in HI-FI, che è un terzo dell’energia necessaria a riprodurre, sempre in HI-FI, una traccia in streaming. Le opzioni suggerite per ridurre il proprio impatto quando si ascolta musica sono infine due: nel fisico, acquistare vinili vintage; nel digitale, preferire il download allo streaming e conservare in locale i file da ascoltare più e più volte.

Benvenuti nei record club
Nel prolifico mondo delle subscription box anche la musica si è ritagliata il suo spazio, riportando il concetto di abbonamento non solo alla sottoscrizione di servizi in streaming ma alla dimensione materiale e collezionistica della musica. Il fenomeno ha preso piede tra gli appassionati di supporti analogici soprattutto in USA e UK, offrendo formule che vanno dalla semplice selezione mensile di LP, scelta in base al genere preferito come nel caso di Vinyl Record Club e VNYL (che fa una selezione grazie alle preferenze musicali espresse su Spotify), a box tematiche che oltre a vinili e CD contengono anche sticker, T-shirt e altri gadget, come Mosh Boxxx, fino a box che offrono solo accessori da collezionare o utilizzare per affrontare al meglio festival, concerti e rave. In questo panorama spicca per creatività la statunitense Vinyl Moon, fondata dal blogger Brandon Bogajewicz: una pubblicazione mensile basata sulla ricerca di nuova musica che va dall’indie rock all’elettronica, selezionata per comporre un mixtape, incisa su vinile e corredata di packaging deluxe con grafica originale e booklet, il tutto spedito in una confezione di cartone ondulato personalizzata. Fisici, fisicissimi ma non troppo: Vinyl Moon, per esempio, ha anche un suo canale su Spotify.

Musica nel cervello
Al polo estremo della smaterializzazione troviamo le applicazioni futuribili di Neuralink, la società di neuroingegneria fondata da Elon Musk la cui ricerca mira a integrare nel cervello tecnologie in grado di superare diverse forme di disabilità neurologiche. Neuralink sta sviluppando dispositivi da impiantare chirurgicamente e che potranno essere controllati da remoto, e non esclude che, in parallelo alle applicazioni mediche, possano essere sviluppate soluzioni che permettano di ascoltare musica senza l’uso di dispositivi esterni. Date le difficoltà tecniche da superare, tuttavia, questo futuro sembra ancora lontano e di sicuro non alla portata di tutti: meglio non sbarazzarsi, per il momento, di casse, cuffie e giradischi.

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INTERVISTA
Paolo Proserpio. Lusso, skate e musica indipendente.


In una dimensione sempre più smaterializzata, il supporto fisico può avere un futuro a patto che diventi un valore aggiunto rispetto ai contenuti digitali. Ne abbiamo parlato con Paolo Proserpio, designer che ha cominciato la sua carriera nello studio grafico di Gucci – era l’era di Tom Ford – e che da molti anni collabora, tra gli altri, con Versace. Esperto di serigrafia, ama “costruire e trafficare” progettando prodotti che vengono stampati: tra questi, molti dischi per artisti ed etichette indipendenti.


La musica è sempre più smaterializzata. Il supporto fisico è destinato a scomparire o, al contrario, può reinventarsi, comunicare qualcosa di diverso rispetto al passato, farsi veicolo di innovazione?
Come tutte le cose gratuite o facili da reperire, se completamente smaterializzata anche la musica perde valore. In termini di percepito, è importante reperire la fisicità, soprattutto quando si tratta di un’edizione rara, o che richiede dei lunghi tempi di attesa. I collezionisti comprano i dischi sia perché gli piace il design dell’oggetto, sia perché nelle copertine digitali non si trovano tutte le informazioni che invece offre l’oggetto fisico: chi ha registrato, chi ha suonato cosa, chi ha fatto la grafica, o anche semplicemente i ringraziamenti. Sono informazioni che gli artisti inseriscono, eventualmente, sul sito o sui social, ma mancano completamente nelle piattaforme di streaming. Avere tra le mani un disco è come comprare un libro e leggerlo dall’inizio alla fine, offre un’esperienza che ha molte dimensioni: la copertina, il retro, il libriccino, le foto, il gesto di sfilare il vinile, e non da ultima la materia, che comunica di più… Non nego, naturalmente, i vantaggi e la praticità della musica digitale nel quotidiano, ma personalmente, come designer, ho avuto un incremento di richieste di fisicità, perché soprattutto gli artisti indipendenti si sono resi conto che l’oggetto da vendere serve più che mai.

Quanto è importante puntare sul design e sulla qualità estetica e sensoriale del prodotto stampato, e quali sono le principali tendenze del momento?
Nella produzione attuale di dischi ci sono due fondamentali scuole di pensiero. La prima è quella legata ai grandi volumi, che richiedono formati classici standard – come per esempio il digipack – e che quindi permettono di contenere i costi su larga scala. Non solo: il formato classico spesso è una scelta che va incontro ai gusti del pubblico, che non sempre è pronto per ricevere qualcosa di diverso dal solito. La seconda riguarda le basse tirature: una filosofia legata prevalentemente alle etichette indipendenti che decidono di puntare su ricercatezza e originalità per incentivare le vendite. Un packaging inusuale fa notizia, e lo si progetta con l’idea che l’oggetto faccia parlare di sé. Se parliamo di versioning e personalizzazione, tra le principali tendenze del momento c’è indubbiamente il vinile colorato, con la diversificazione dei colori che rappresenta una forma di personalizzazione. Sicuramente l’idea di possedere un oggetto in tiratura limitata o in diverse copertine tra cui scegliere è attraente per i collezionisti e i completisti, che possono arrivare a comprare tutte le versioni disponibili, e dalle edizioni numerate che rendono l’oggetto unico: tutto reso possibile dalla stampa digitale. Alcune forme di personalizzazione possono essere fatte a mano, a patto che si ragioni sulle basse tirature e si resti in una dimensione quasi artigianale: io lavoro spesso in questo modo. I formati bizzarri, che escono fuori dal comune, sono un grandissimo incentivo per i collezionisti, anche se presentano poi dei problemi di archiviazione, ma tendenzialmente sono oggetti spesso fatti per essere esposti.

Tu hai realizzato molti progetti in ambito musicale. Fino a che punto si può spingere la sperimentazione in termini di personalizzazione e produzioni di oggetti diversi dagli standard?
Se nel lavoro con le major i paletti da rispettare sono molti, nel mondo indipendente, in cui le tirature e i costi sono diversi, si può dare spazio alla sperimentazione estrema e all’artigianalità, senza doversi preoccupare della macchinabilità dei progetti. È questo il caso di diversi progetti che ho realizzato: con il gruppo punk-rock Pay, per esempio, ci siamo interrogati sulla ragione d’essere del CD, che nessuno ascolta più, nemmeno in macchina. Quindi, nel progettare il disco “Canzoni per gente che non si fa più” del 2016 abbiamo deciso di tagliare a metà con una sega tutti i CD, uno per uno, e chiaramente l’imprecisione del taglio ha creato l’unicità del disco e molto interesse da parte del pubblico. Tuttavia, per non rendere l’album totalmente inascoltabile, abbiamo nascosto all’interno della confezione una bustina, più piccola, che contiene il CD intero e che si scopre solo dopo lo stupore iniziale. Anche le copertine sono tutte diverse: le ho stampate con una fotocopiatrice su carta fluorescente in formato A3, poi ripiegata a mano. Ho incollato i testi sulla fotocopiatrice e ho “fotocopiato” dal vivo le facce del cantante e del bassista: ogni stampa ha un’immagine diversa rispetto alla precedente. Per la band Aurelia 520 (nome, tra l’altro, di una macchina da stampa, ndr) ho realizzato un progetto con circa 500 Polaroid che ho scattato personalmente sul tema della musica: ogni copia dell’EP “Un istante calmo e sereno”, dunque, ha una Polaroid originale diversa.

Che rapporto hanno i più giovani con il supporto fisico?
Se devo pensare a un campione rappresentativo – anche se non esaustivo – delle nuove generazioni, i miei studenti tendono a essere monotematici: in questo momento il modo più diffuso di comunicare in musica è la trap, un genere che nasce insieme al digitale. Molti artisti, soprattutto quelli più di nicchia, non escono nemmeno su supporto fisico, ed è molto raro che i miei studenti acquistino edizioni speciali o limitate di un album, anche se può succedere che ancora qualcuno scelga il supporto fisico in base alla grafica. Rispetto alle generazioni precedenti, i ragazzi investono i loro soldi in altro, soprattutto in capi d’abbigliamento o accessori per dimostrare alla loro nicchia che esistono: indossare una maglietta, farsi la foto e postarla su Instagram. Manca completamente, per ovvie ragioni, l’abitudine all’acquisto del disco, la ritualità della ricerca, l’aspettativa creata dalle recensioni… una ritualità puramente generazionale che però finisce allo stesso modo su Instagram: i quarantenni comprano dischi d’epoca su Discogs o nei mercatini e postano una foto per condividere l’esperienza del passato.

Quali commistioni possiamo trovare tra packaging musicale e lusso?
Musica e moda sono da sempre mondi che si contaminano a vicenda, soprattutto nell’affermazione dell’immagine degli artisti, che diventano modelli di stile per i loro fan. Negli ultimi anni il lusso ha interpretato a modo suo lo streetwear, diventando specchio di quello che succede nel mondo; allo stesso modo la musica fa di tutto per entrare nel mondo della moda: l’attenzione è reciproca, i musicisti e cantanti diventano trend setter e sicuramente la grafica riflette questa commistione. Se poi si parla di packaging, i codici tradizionali del lusso vengono ripresi nelle edizioni limitate per dar loro valore attraverso la stampa a caldo, la scelta di supporti e soluzioni cartotecniche ricercate. La stampa a caldo richiede alte tirature, ma la si ritrova anche nelle edizioni limitate per dare valore aggiunto alle serie da collezione.

E per quanto riguarda la sostenibilità?
Un disco è un prodotto destinato a durare nel tempo, che entra a far parte di una collezione e che spesso viene rivenduto: il mercato dell’usato è molto forte, e quindi i prodotti hanno spesso una seconda vita. Tuttavia utilizzare materiali sostenibili è una scelta che manda un messaggio fortissimo da parte degli artisti, e nel caso di quelli che hanno un vasto pubblico ha un impatto sociale importante: faccio l’esempio di Jovanotti che per Jova Beach Party ha realizzato un 33 giri con plastica riciclata. Personalmente credo che la realizzazione di un prodotto sia sempre frutto di un equilibrio: io tendo a prediligere da sempre le carte naturali, non amo la plastificazione pur essendo consapevole della sua funzione protettiva, e non amo particolarmente i pack che contengono plastica, ma spesso i clienti li richiedono. Riuscire a condurli verso la strada della sostenibilità è uno sforzo consapevole, e si possono ottenere ottimi risultati ammesso che si riesca a entrare in una logica di costi produttivi vantaggiosa.


Nella slideshow: 

1.
Pay
Va proprio tutto bene
2020
Vinile (Lp)
Art Direction: Paolo Proserpio

2. 
Orange
Rock Your Moccasins
2011
cd
Art Direction: Paolo Proserpio

3.
Niklas Pashburg
Oceanic
2017
Vinile (Lp)
Art Direction: Paolo Proserpio

4.
Auroro Borealo
Implacabile
2020
Vinile (Lp)
Art Direction: Paolo Proserpio

5.
The Gluts
Dengue Fever
Hypnotic Trip
2019
Vinile (Lp)
Art Direction:
Paolo Proserpio

6.
Pay
Canzoni per gente che non si fa più
2016
Cd
Art Direction:
Paolo Proserpio

7.
Mean Jeans
Senza titolo
2019
Vinile (7 pollici)
Art Direction:
Paolo Proserpio



PAOLO PROSERPIO. Nato a Milano nel 1977, nel 1989 vede “Ritorno al futuro, parte 2” con il protagonista, Marty McFly, che viaggia su uno skate. Inizia così la sua passione per arte, musica e tavola, incoraggiata e stimolata da una famiglia molto creativa e aperta. Dopo tre anni di Accademia di Architettura a Mendrisio, nel 2002 si diploma in Graphic Design all’Istituto Europeo di Design di Milano. Durante gli studi lavora per tre mesi nell’ufficio grafico di Londra di Gucci e, appena diplomato, comincia a lavorare per Versace, collaborazione che dura tutt’ora. Da otto anni Paolo Proserpio è titolare di uno studio grafico focalizzato sulla progettazione grafica/art direction di prodotti che vengono soprattutto stampati: immagine coordinata, gadget, packaging, magliette e copertine di dischi. Versace, Pinbowl Skatepark, K7 Records, Paula Cademartori, Maggioni Type, Punk Rock Raduno e diversi gruppi della scena underground italiana e internazionale sono i clienti principali dello studio. Da sempre appassionato di serigrafia, base della produzione/cultura DIY, ha partecipato a diversi corsi legati a questa disciplina presso la Saint Martin School of Art e East London Printmakers (Londra). Dal 2005 collabora come docente allo I.E.D. di Milano curando i corsi di “Brand Design” e “Printmaking Techniques”; tiene inoltre due workshop all’anno sulla serigrafia Presso la Domus Academy (Naba). Probabilmente a causa di questa passione verso la matericità e la stampa, fino ad ora non ha mai creduto molto nei social network e pensa che il miglior modo per promuoversi sia tentare di fare un ottimo lavoro.


26/03/2021


Inchieste e ispirazioni