Materiali e Printability

Come si stampa il vetro?

Fragile e rovente, trasparente e multiforme, il vetro è uno dei materiali più raffinati che si possono usare in architettura e nella decorazione d’interni. Trasparente per definizione, è però grazie alla colorazione, alla stampa e alla decorazione che espande i propri ambiti di utilizzo, offrendo infinite possibilità creative: porte e finestre, tavoli e sedie, ma anche box doccia, pannelli divisori, rivestimenti per cucine e bagni.

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Eppure il vetro è ancora poco usato al di fuori dagli ambiti funzionali. Se in ambito architettonico è il materiale più usato per le vetrate dei grattacieli, nelle abitazioni private rimane spesso relegato in ambiti ben precisi e ristretti, come gli elettrodomestici e gli infissi. I motivi sono vari: rispetto a materiali plastici come il Plexiglass è più fragile, delicato e costoso. Inoltre richiede competenze specialistiche e attrezzature specifiche per essere stampato, decorato, lavorato, trasportato, montato. Ci sono alcune domande fondamentali da farsi quando si parla di stampa su vetro:

Qual è la destinazione d’uso del prodotto finito?
Che resistenze sono necessarie, durante la lavorazione e dopo?
Quali lavorazioni sono necessarie per arrivare al prodotto finito?

Queste domande sono fondamentali anche per capire come attenersi alla normativa sulla sicurezza, che in Italia, per il vetro, è l’UNI 7697 del 2015. Avere la risposta a queste prime domande renderà più semplice rispondere a queste:

Su quale tipo di vetro posso stampare?
Ho bisogno di pretrattamento e post-trattamento?
Quale inchiostro?
Basta un curing o un pinning, oppure ho bisogno della tempra?
Quale tecnica di stampa userò?
Come verrà lavorato il prodotto dopo la stampa?

Avventuriamoci ora nell’affascinante mondo del vetro grazie ai contributi scientifici di scientifico di Luca Bellotto (Heliv Group), Roberto Ghiro (AGC Flat Glass Italia), Giorgia Giacchetto e Alice Guolo (Veneto Vetro), Francesco Gonella (Università Ca’ Foscari di Venezia), Liliana Toschi (Ferro).

Il vetro, o meglio: i vetri

Parliamo sempre di “vetro”, ma  in realtà i vetri sono moltissimi, diversi per composizione chimica e fisica. Dal punto di vista chimico, il vetro è “un liquido la cui viscosità è così alta da assomigliare a un solido”, secondo la definizione del professor Francesco Gonella. Tutti i vetri usati nell’interior decoration e in architettura sono composti principalmente di tre elementi: silice, soda e calce. La silice è la base comune a tutti i vetri, la componente “vetrificante”. La soda (o meglio, l’ossido di sodio) serve principalmente ad abbassare la temperatura di fusione, portandola da più di 1.700 gradi Celsius a temperature ben al di sotto dei 1.000 °C. La calce è invece uno stabilizzante: essendo il vetro un materiale amorfo, dalla composizione molecolare non cristallina, non è stabile. Per questo rischia, per esempio, fratture durante il taglio. La calce serve anche a ripristinare l’insolubilità della materia. A questi elementi principali si aggiungono l’ossido di magnesio e di alluminio, ulteriori elementi stabilizzanti che migliorano le proprietà chimiche e meccaniche del prodotto. Vengono aggiunti ossidi di metalli per produrre vetri colorati, che però in ambito industriale non sono molto richiesti. Altre sostanze servono ad aumentare determinate proprietà del vetro: abbassare la temperatura di fusione, stabilizzare la struttura molecolare, affinare i difetti, colorare o decolorare, opacizzare. I vetri moderni, poi, spesso contengono frammenti di vetro preesistente, che viene così riciclato e che aiuta ad abbassare la temperatura di fusione. Il vetro piano, quello di cui parliamo in questo articolo, ha una composizione chimica differente da quella del vetro cavo, usato per realizzare bicchieri e bottiglie. E anche di vetri piani ce ne sono di varie tipologie: float (o ricotto), temprato, indurito, stratificato (o laminato). Il vetro float o ricotto è stato inventato nel 1952 da Alastair Pilkington. È la tipologia più diffusa (è anche la meno elaborata, rispetto alle altre, che hanno lavorazioni aggiuntive). Viene detto “float” dal verbo inglese to float, che significa galleggiare. Questo nome curioso deriva dalla sua lavorazione: dopo che le materie prime fondono ed escono dal bacino di fusione, entrano in una camera dove c’è una specie di piscina di stagno fuso. Il fluido vetroso galleggia sullo stagno senza mescolarsi e forma naturalmente uno strato spesso circa sei millimetri (è lo spessore che viscosità, tensione superficiale e forza di gravità fanno assumere ad ogni fluido vetroso). In questo momento si agisce per aumentarne o diminuirne lo spessore − tenendo conto che nel settore architettonico vengono generalmente usate lastre spesse dai tre ai venticinque millimetri. Nel primo caso vengono strette le barriere che arginano il flusso di vetro incandescente, nel secondo vengono attivati “top roll”, rulli che scorrono più o meno velocemente sul fluido e lo stendono. Da questa lavorazione si determinano il “lato stagno” − che entra a contatto con il metallo.


Un materiale particolare: la vetroceramica
Un’ulteriore tipologia di materiale vetroso usato nell’arredamento, e in particolar modo negli elettrodomestici (forni, piastre a induzione), è la vetroceramica. È un materiale composito che si caratterizza per un’altissima resistenza al calore e particolari caratteristiche termomeccaniche, alcune proprie del vetro (come l’ermetizzazione), e altre della ceramica (come la resistenza). Ha una composizione chimica particolare: cristalli di piccoli dimensioni sono immersi in una massa amorfa di materiale vetroso. Si ottiene attraverso un procedimento termico che permette la nucleazione, ovvero l’aumento del numero dei cristalli all’interno della massa vetrosa. fuso − e il “lato aria” − che rimane esposto all’aria.
Il raffreddamento avviene in modo controllato, per evitare il rischio di fratture il vetro passa da seicentoventi a duecentocinquanta gradi, in un tunnel detto forno di raffreddamento o “étenderie”. Questo processo è anche detto “ricottura”: da qui deriva il nome “vetro ricotto”. La lastra di vetro si raffredda all’aria e quando finalmente raggiunge la temperatura di cento gradi è pronta per subire ulteriori lavorazioni, come il taglio (la dimensione standard di una lastra è 6.000 per 3.210 millimetri), la molatura, la curvatura, oppure la tempra o l’indurimento. Questi ultimi due procedimenti, che servono a rendere il vetro più duro e quindi più resistente, consistono nel riscaldamento e nel successivo raffreddamento della lastra.
L’ultimo tipo di vetro che abbiamo menzionato, molto usato in architettura, è quello detto stratificato o laminato. È questo un vetro composito, un sandwich, di vetri ricotti, temprati o induriti, tenuti insieme da un intercalare (o interlayer) di polivinilbutirrale (PVB), di etilene vinil acetato (EVA) o poliuretano termoplastico (TPU). Esistono anche vetri laminati antiuragano, che usano interlayer specifici.

Il vetro con i superpoteri: la coatizzazione
Il vetro, nell’architettura e nell’arredamento d’interni, può essere usato “al naturale”, ma più spesso passa attraverso qualche tipo di processo di “coatizzazione”, di rivestimento, che ne aumenta l’efficienza energetica o ne potenzia qualche altra caratteristica. Bisogna infatti tenere presente che di solito, nell’architettura residenziale, si usano vetri che lasciano entrare dal settantacinque all’ottanta per cento dei raggi solari. In costruzioni particolari con grandi vetrate, i vetri lasciano passare tra il cinquanta e il sessanta per cento della luce solare. Esistono però varietà di vetri che lasciano entrare solo il venticinque per cento della luce: vengono solitamente usati in copertura. Inoltre, sono molto richiesti vetri basso-emissivi (che non lasciano uscire il calore durante l’inverno) e a controllo solare (che non lasciano penetrare i raggi del sole durante l’estate). Il vetro “coatizzato” è ricoperto da un rivestimento di metallo o ossido di metallo. Uno dei più efficaci è l’argento, ma vengono usati anche zinco e titanio. Su una stessa lastra di vetro può essere applicato anche più di uno strato di coating, che è completamente trasparente. Per coatizzare una lastra di vetro vengono usati due procedimenti: quello pirolitico e quello magnetronico.
I vetri pirolitici vengono realizzati spruzzando l’ossido di metallo direttamente sul vetro appena uscito dal bagno di stagno (è una procedura in linea). La superficie ancora molle assorbe il coating e lo ingloba. Questo tipo di rivestimento è particolarmente resistente ai graffi e alle abrasioni, perché, di fatto, l’ossido vetrifica. Invece i vetri magnetronici sono più delicati ma più efficaci di quelli pirolitici. In questo caso il coating viene spruzzato sul vetro perfettamente raffreddato (è una procedura offline): la lastra viene fatta passare attraverso un “coater”, che consiste in una camera estremamente lunga (può arrivare fino a cento metri di lunghezza, per cinquanta centimetri di altezza) che solitamente si trova all’interno di una linea di produzione. All’interno del coater non c’è pressione; molecole di metallo (argento per esempio) vengono trasferite sul vetro grazie a un processo elettromagnetico.
Questo tipo di coating superficiale, essendo esposto agli agenti atmosferici, dopo un determinato periodo di tempo (solitamente tre mesi) inizia a corrodersi. Per questo, per esempio nei vetri delle finestre, viene sigillato all’interno della vetrocamera. Esistono anche coating magnetronici studiati per resistere all’atmosfera, come il coating antiriflesso.

Alcune cose da tenere in  considerazione quando si stampa su vetro
Soprattutto nell’interior design stanno cominciando a essere sempre più usati vetri colorati, stampati o decorati. Ma quando si vuole stampare o decorare il vetro, ci sono alcune cose da tenere in considerazione. La prima (e fondamentale) è che si possono usare due diversi tipi di inchiostri: quelli ceramici a base vetrosa e quelli organici. Questi ultimi vengono anche chiamati “a freddo”, perché non vengono lavorati ad alte temperature ma sottoposti a un semplice curing, a differenza di ciò che accade invece con gli inchiostri ceramici, che prima vengono essiccati (talvolta anche direttamente in macchina) e poi subiscono un vero e proprio processo di tempra che li fa vetrificare, rendendoli un tutt’uno con la lastra. Gli inchiostri organici rimangono invece sulla superficie, non si fondono, e hanno quindi resistenze minori (agli agenti atmosferici, agli acidi, all’alcol, ai graffi, all’abrasione, alle macchie, allo scivolamento...).
Solitamente, per ovviare a questo problema, in applicazioni architettoniche o di decorazione d’interni, la superficie decorata con la stampa a inchiostri organici viene pretrattata e poi protetta con coating specifici oppure con un’altra lastra: si crea un sandwich, mantenendo la stampa all’interno. Tra i vantaggi della stampa a freddo c’è invece la possibilità di avere una gamma cromatica molto ampia e che comprende il bianco puro (non realizzabile con inchiostri ceramici), gli inchiostri fluo e quelli metallizzati. Questi ultimi possono però essere ottenuti anche con inchiostri ceramici, se pure non con la tecnologia digitale, ma in serigrafia.
Un’altra cosa da tenere in considerazione, parlando di stampa su vetro (quale che sia), è che si stampa sempre sul lato aria. Esistono strumenti specifici che sfruttano i raggi ultravioletti per identificare con sicurezza qual è. Inoltre, se si usano inchiostri ceramici, bisogna verificare che le loro temperature di cottura siano inferiori alla temperatura di rammollimento del vetro e che quest’ultimo possa essere temprato (altrimenti gli inchiostri non potrebbero cuocere). Per esempio, non tutti i vetri coatizzati possono passare attraverso un processo di tempra.
Infine, uno degli aspetti più delicati della stampa su vetro è la perfetta pulizia della lastra, altrimenti l’inchiostro non aderisce correttamente e si formano delle difettosità. Per questo motivo, nelle linee di produzione industriale, le lastre prima di arrivare in stampa passano una lavatrice. Il processo di stampa avviene solitamente in una camera bianca, a temperatura e umidità controllata, per evitare depositi accidentali di polvere prima e soprattutto durante il deposito dell’inchiostro, quando deve ancora essiccare.




La normativa
La normativa italiana che stabilisce i criteri da adottare per scegliere le tipologie di vetro in funzione della loro destinazione d’uso, così da garantire la sicurezza degli utenti, è l’UNI 7697 del 2015, Criteri di sicurezza nelle applicazioni vetrarie.
I vetri vengono suddivisi sulla base della destinazione d’uso: esterni, interni, verticali, orizzontali, accessibili, non accessibili, protetti e non protetti. Interessa vetri usati per finestre, porte, porte-finestre, vetrine, balaustre, parapetti, lastre divisorie interne, ma anche per acquari e piscine.
La normativa definisce inoltre le azioni e le sollecitazioni che potrebbero portare alla rottura del vetro (vento, folla, traffico pedonale, peso proprio, carichi esterni, neve, pressione idrostatica, grandine, vibrazioni, terremoti, colpi di vario tipo, proiettili, incendi, esplosioni). Determina infine i rischi associabili alla rottura della lastra.


 


25/01/2019


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